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>Acqua privatizzata

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>Sono queste le cose sulle quali bisognerebbe fare opposizione. Altro che menate di facebook e puttane e transessuali.

(fonte: Rainews24)

Acqua pubblica

Acqua pubblica

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Roma, 17-11-2009

Il governo ha chiesto il ventiseiesimo voto di fiducia, 18 dei quali alla Camera, sul decreto obblighi comunitari che contiene, all’articolo 15, la privatizzazione dei servizi pubblici locali, acqua compresa.

Lo ha annunciato nell’Aula di Montecitorio il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, “data la ravvicinata della di scadenza del decreto” con “obblighi comunitari che non possiamo eludere”. Vito ha aggiunto che la fiducia sara’ votata su un “maxiemendamento” con un testo “identico” a quello approvato dalla commissione che “e’ identico a quello arrivato dal Senato”.

L’aula della Camera ha respinto le pregiudiziali di costituzionalita’ – presentate da Pd e Udc – al ‘decreto Ronchi’, che fissa disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita’ europee.

Insorgono Pd e IdV
“Si sarebbe arrivati subito ad un voto unanime su questo provvedimento se il governo avesse stralciato dal decreto l’articolo sui servizi pubblici locali che non ha il coraggio di discutere ne’ di spiegare alla gente”: lo ha detto nell’Aula della Camera Marina Sereni del Pd dopo che il governo ha posto la questione di fiducia sul decreto Ronchi.

“Questa fiducia – spiega Sereni – non e’ certo motivata dall’ostruzionismo dell’opposizione da dalla mancanza di fiducia del governo rispetto ai propri deputati”.

Durissimo anche Massimo Donadi (Idv): “Voi umiliate il Parlamento e offendete la democrazia; siete una maggioranza appecoronata felice di non lavorare per un giorno”.

Michele Vietti (Udc) ha invece ribadito che l’aspetto tempo, denunciato dal ministro Vito come alla base della fiducia a Montecitorio sul decreto, e’ causato dal fatto che il testo sia stato per troppo all’esame del Senato. Una circostanza condivisa, questa, appieno da Simone Baldelli del Pdl, secondo cui “servono regole certe sui tempi certi per l’esame dei provvedimenti”.

Pubblicità

Written by eneaminghetti

novembre 17, 2009 at 3:59 PM

>La Russa e il crocefisso

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Written by eneaminghetti

novembre 6, 2009 at 11:13 am

>Buon senso vittima del diritto

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>Una bella dichiarazione eversiva da parte di Bersani.

CROCEFISSO: BERSANI, ANTICA TRADIZIONE NON OFFENDE NESSUNO =
(AGI) – Bruxelles, 3 nov. – Da Bruxelles, il leader del Pd,
Pierlugi Bersani, difende la tradizione del crocefisso a
scuola: “penso che in questo delicato campo il buon senso
finisce per essere vittima del diritto“, dice a giornalisti che
lo attendevano all’ingresso del palazzo Berlaymont, sede della
Commissione Europea per chiedergli un commento sulla sentenza
del Consiglio d’Europa a Strasburgo. “Penso – ha quindi
proseguito – che un’antica tradizione come quella del
crocefisso non possa essere offensiva per nessuno”. (AGI)
Mpa/Zeb
031503 NOV 09

Written by eneaminghetti

novembre 3, 2009 at 2:54 PM

>Borghezio fascista tra i fascisti

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Written by eneaminghetti

ottobre 27, 2009 at 10:37 am

>EUROPEE, LEGGE ELETTORALE, AMMESSO RICORSO A CONSULTA

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Ue/L. Elettorale, ammesso ricorso
a Consulta di
Diliberto e Vendola
Il Tar del Lazio ha ammesso i ricorsi alla Corte Costituzionale di Sinistra e Libertà (all’epoca Partito Socialista, Verdi e Sinistra democratica) e di Rifondazione Comunista e Partito dei Comunisti Italiani contro l’assegnazione di un seggio ad un europarlamentare della Lega Nord e di un altro dell’Italia dei Valori, a favore di Oliviero Diliberto e Nichy Vendola.

Il Tar ha, inoltre, ammesso il ricorso di Giuseppe Gargani del PdL contro l’assegnazione di seggi sulla base della sottrazione degli stessi ad altre circoscrizioni per nominare un diverso parlamentare dello stesso partito proprio in quelle altre circoscrizioni.

”L’accoglimento – spiega all’agenzia di stampa Asca l’avvocato Felice Besostri, estensore del ricorso di Sinistra e libertà e Senatore della commissione Affari Costituzionali nella XIII Legislatura – comporta la perdita di un europarlamentare dell’Italia centrale per la Lega Nord e di un altro dell’Italia dei Valori nella circoscrizione V, Italia insulare”. Ciò significa che, se anche la Corte costituzionale accoglierà i ricorsi, Diliberto sarà nominato europarlamentare per la circoscrizione III, Italia centrale e Vendola andrà a Strasburgo come rappresentante della circoscrizione V, Italia insulare.

”Il Tar del Lazio – dice ancora Besostri – ha ritenuto di ammettere il ricorso sulla base di un’interpretazione dell’articolo 21 della legge 18/79, come modificata dalla legge 10/09”. La tesi dei ricorrenti si basa sull’assunto che, ”malgrado la clausola di sbarramento, c’era nella legge un diritto di tribuna per cui i seggi da attribuire coi resti vanno anche alle liste che non hanno raggiunto il 4%, purché la loro cifra elettorale nazionale (i voti presi, ndr) sia superiore ai resti delle liste che avevano superato questa soglia”. E questo è proprio il caso di Sinistra e Libertà e Rifondazione Comunista che hanno più voti, in termini di resti, di Lega nord e Italia dei Valori.

Se poi la Corte accogliesse pure il ricorso di Gargani – spiega infine l’ex senatore – che investe anche la clausola nel suo complesso, per cui è ammesso alla ripartizione chi ha superato lo sbarramento del 4%, il PdL perderebbe 3 seggi, il PD 3, la Lega Nord 2, l’Italia dei Valori 1. Di contro, SL ne acquisterebbe 2, RC e PDCI 2, Partito liberale 2, Movimento per l’Autonomia 2.

Written by eneaminghetti

ottobre 23, 2009 at 4:23 PM

>Aurora – Periodico degli emigrati per l’Unità Comunista

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>Aurora – Periodico degli emigrati per l’Unità Comunista

visitate questo sito
www.aurorainrete.org

Written by eneaminghetti

settembre 23, 2009 at 1:05 PM

Pubblicato su aurora

>Coscienza e totalitarismo. Vergogna al PE

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>

A questo link il testo della risoluzione approvata:
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P6-TA-2009-0213&language=IT&ring=P6-RC-2009-0165

Qui la lista dei votanti (pag 103 del file pdf):
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//NONSGML+PV+20090402+RES-RCV+DOC+PDF+V0//IT&language=IT

da Collettivo Autorganizzato dell’Università di Napoli
cau.noblogs.org/post/2009/04/21/verso-il-25-aprile…-chi-controlla-il-passato-controlla-il-futuro

“Chi controlla il passato controlla il futuro”
Riscrittura della storia e criminalizzazione del dissenso nell’Unione Europea
a cura Collettivo Autorganizzato Universitario
Lo scorso 2 aprile il parlamento europeo ha approvato una risoluzione che sancisce l’equiparazione di nazismo, fascismo e comunismo. Questa risoluzione si basa sul revisionismo storico più sfacciato, spiana la strada ad un uso sempre più indiscriminato del “reato di opinione”, estromettendo dal dibattito storico-politico ed imbavagliando chiunque esprima parere contrario alla Verità di Stato che è stata costruita. A pochi giorni dall’anniversario della Liberazione ci sembra fondamentale ricordare chi fu vittima e chi invece carnefice e quali realmente furono le forze capaci di liberare l’Italia e l’Europa dal nazifascismo.
di seguito una nostra riflessione in merito alla risoluzione…
Fra qualche mese saremo chiamati a dare ancora una volta il nostro voto alle elezioni europee: andremo a fare il nostro dovere di bravi cittadini, scegliendo questo o quel partito – in perfetta libertà – un sorriso di soddisfazione quando avremo messo la scheda nell’urna… Tutto bene, dunque. Ma ci siamo mai chiesti, fuori dalla retorica dominante, cos’è l’Unione Europea, quale sia il progetto di questa gigantesca realtà politico-economica, su cosa intenda fondare la sua unità? Domande apparentemente banali, certamente legittime, che forse ci potrebbero far capire qualcosa in più sulla nostra situazione concreta, su ciò che viviamo ogni giorno.
Un’occasione per fare queste profonde riflessioni ci è offerta da una Risoluzione approvata il 2 aprile 2009 dal Parlamento Europeo. Accolta favorevolmente da 553 deputati (con soli 44 no e 33 astensioni), degna dunque di tutta la nostra considerazione, la Risoluzione verte sul nobile tema: “Coscienza europea e totalitarismo”. A guardare il messaggio manifesto, pare ci si voglia spiegare secondo quali bei principi si intende costruire lo spazio della “civiltà europea”. Ma in verità, grattando solo un po’, escono fuori gli interessi ben poco edificanti di chi vuole riscrivere la storia, limitare la ricerca scientifica e proibire certe opinioni politiche.
Ma vediamo meglio il testo della Risoluzione, partendo da quella sfilza di “visto…” che in ogni documento ufficiale traccia la mappa dei riferimenti ideali, il solco in cui il nuovo provvedimento si inserisce. Eccoli qui: la Risoluzione 1481 del Consiglio d’Europa (26/01/06) “relativa alla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti”, la Proclamazione della “Giornata europea della memoria per le vittime dello stalinismo e del nazismo” (23/09/08), la Dichiarazione di Praga (3/06/08) sulla “Coscienza europea e il comunismo”… Pare insomma che intorno a questo tema negli ultimi tempi si stanno dando parecchio da fare a Bruxelles. Eppure con la crisi economica che avanza il problema non è proprio scottante… Oppure si?
C’è infatti un’altra cosa che colpisce in quest’elenco di provvedimenti e Dichiarazioni di diritti fondamentali dell’uomo (puntualmente disattese): il riferimento alla decisione quadro del Consiglio d’Europa (28/11/2008), relativo alla “lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale”. Si tratta di una decisione che autorizza a punire penalmente chi, attraverso pubblicazioni e discorsi, incita all’odio contro lo straniero. Un encomiabile provvedimento, non c’è che dire. Ma che c’entra in questo contesto? Semplice: questo provvedimento, ed altri affini, servono come base giuridica per imbastire nei singoli paesi europei i processi contro chi fornisce un’altra versione della storia europea. Attenzione: non si tratta solo di colpire le schifose menzogne dei negazionisti! Attraverso un uso davvero spregiudicato del “reato d’opinione” si mira a restringere lo spazio delle cose che possono essere dette. Così criticare la politica dello Stato di Israele ci fa immediatamente diventare antisemiti, dunque razzisti, dunque condannabili. E riferirsi al comunismo ci fa immediatamente appartenere ad una supposta schiera demoniaca che predica l’odio e instaura dittature e gulag. Che nella “libera” UE, insomma, la censura diventi esplicita, passi in sentenza, dopo essere puntualmente in atto in ogni media ed in ogni istituzione accademica?
Una lettura delle considerazioni preliminari della Risoluzione ci conferma in quest’interpretazione: “Considerando che nessun organo o partito politico detiene il monopolio sull’interpretazione della storia… che le interpretazioni politiche ufficiali dei fatti storici non dovrebbero essere imposte attraverso decisioni a maggioranza… che un parlamento non può legiferare sul passato…”. Più che ipocrite, queste frasi rappresentano una curiosa, colpevole ammissione: negano ad alta voce esattamente ciò che sono impegnate a fare. Lo scopo della Risoluzione è infatti proprio quella di mettere dei paletti ben precisi alla storia europea, e condividerli in tutti i paesi attraverso una votazione. Bisogna infatti “porre le basi di una riconciliazione basata sulla verità e la memoria”.
Ecco un dato davvero inquietante: questo richiamo alla “verità”, quest’idea che possa essere imposta dall’alto. Viene da chiedersi: non è proprio quest’uso della Verità quello che storicamente i liberali hanno contestato ai regimi “totalitari”? In ogni caso ecco la nuova versione della storia europea: “l’integrazione… è stata una riposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista… e all’espansione dei regimi comunisti totalitari e non democratici dell’Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni… attraverso la cooperazione e l’integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia”.
Davvero consolante, questa visione delle cose. Ma c’è da dubitarne: innanzitutto l‘integrazione, più che aspirazione umanistica, è stata ed è tuttora un fenomeno eminentemente economico e, attraverso la NATO e la costruzione dell’esercito Europeo, anche militare. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale quest’integrazione è servita a tutelare, in un’alleanza strategica, gli interessi delle borghesie dei singoli paesi occidentali – che si trattasse di commerciare carbone ed acciaio, o di sconfiggere le lotte sociali e le rivoluzioni al di qua della cortina di ferro (si pensi alla Grecia, in cui le forze anglo-americane intervennero negli anni ’40 per sconfiggere una rivoluzione vincente).
In secondo luogo, l’integrazione non ha assolutamente posto fine alle guerre in Europa: basti pensare alla Serbia ed al Kosovo, dove l’UE è andata allegramente a bombardare (ah già, ma loro non sono “europei”…). Se poi parliamo delle guerre nel mondo, quelle non hanno mai smesso di aumentare dalla caduta dell’URSS, e l’UE, costituitasi come vera potenza in un mondo “multipolare”, vi ha ben contribuito mandando i suoi soldati in Somalia, Afganistan, Iraq…
La storia della “democrazia garantita”, poi, rasenta il ridicolo: mentre qualche decennio fa la democratica Germania Ovest metteva il partito comunista fuori legge ed i servizi segreti italiani preparavano stragi e colpi di Stato, oggi l’UE blinda le sue frontiere, causando la morte di migliaia di migranti, e militarizza lo spazio interno, schierando i soldati nelle sue metropoli, reprimendo chiunque manifesti idee differenti dal neoliberismo imperante. Senza parlare di interi popoli, come quello basco, ancora oppressi, o del controllo pressoché monopolistico dell’informazione, ci sarebbe da chiedersi che voglia dire “democrazia” per questi signori, se non il procedimento formale dell’elezione, sul cui senso peraltro ci sarebbe parecchio da dire (dalla scarsa partecipazione alle varie leggi “truffa”, con soglie di sbarramento e premi di maggioranza…).
Così l’integrazione viene presentata come “modello di pace e riconciliazione”, “libera scelta dei popoli europei a impegnarsi per un futuro comune”. E poco importa che i suddetti popoli abbiano votato più volte NO alla Costituzione ed al Trattato europeo… Con l’UE non si scherza! E infatti, seguendo la dottrina bushiana della “prevenzione” e dell’“esportazione della democrazia”, il Parlamento dichiara che l’UE “ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia… sia all’interno che all’esterno del suo territorio”!
Ma veniamo al punto essenziale della Risoluzione: il rapporto dell’Europa con il “totalitarismo comunista”. Qui si esercita la propaganda più becera: sparisce dalla memoria europea il colonialismo e l’imperialismo, la feroce spartizione del mondo in nome del profitto che ha portato milioni di persone alla morte, alla fame, al sottosviluppo; sparisce l’immane carneficina prodotta proprio da quelle logiche di accumulazione e conflitto intercapitalista, ovvero la Prima Guerra Mondiale; spariscono le responsabilità delle potenze vincitrici che vollero affossare e punire la Germania di Weimar, generando così il nazismo; sparisce l’attacco delle forze polacche, francesi e inglesi contro la giovane Unione Sovietica per affossare la Rivoluzione… Si arriva così a chiedere di consacrare il 23 agosto, data del patto Molotov-Ribentropp, alla memoria delle vittime del totalitarismo. Come se la Seconda Guerra Mondiale e le sue vittime non fossero state prodotte da ben altri accordi, quelli “pubblici” di Monaco, dove Francia e Inghilterra appoggiarono le deliranti pretese di Hitler e quelli “privati”, per cui il Terzo Reich doveva essere salvaguardato in quanto baluardo contro il contagio comunista. Con buona pace della Repubblica spagnola, uscita vincente dalle elezioni, ma condannata dal non intervento di Francia e Inghilterra dopo il colpo di Stato nazifascista…
Tutto insomma accade come se da un lato ci fossero i buoni, l’“Europa pacifica e prospera, fondata sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto”, e dall’altro i cattivi, non democratici, comunisti, che inspiegabilmente però hanno goduto di un supporto popolare notevole, hanno sconfitto il nazifascismo, stabilizzato zone da secoli teatro di faide e rivolte, hanno permesso la modernizzazione e lo sviluppo, hanno lottato ovunque per la pace e l’estensione dei diritti in tutti i campi della vita collettiva.
Così, non soltanto gli scambi fra i regimi democratici e quelli “totalitari”, comprovati negli anni ’30 così come oggi, sono ignorati; non solo gli omicidi politici e le torture delle polizie “democratiche” occidentali non sono menzionate, non soltanto “gli eroi dell’epoca totalitaria” che ci si propone di commemorare sono spesso stati leader di formazioni filonaziste riciclate (si pensi ai paesi baltici, alla Croazia, alla Romania)… La cosa che nella Risoluzione colpisce è che tutta la complessità che si domanda all’analisi delle nostre società capitaliste, è negata a quelle del socialismo reale, contraddittori ma significativi esperimenti di democrazia effettiva, rappresentati come il regno dell’arbitrio di un pugno di esaltati, schiacciati sulle loro mancanze. Ma non è proprio una visione del mondo manichea quella che storicamente i liberali hanno contestato ai regimi “totalitari”?
Ancor di più, si assiste ad un’operazione di torsione del linguaggio che mira a stravolgere il senso stesso delle parole. Siccome il termine “comunista” non è ancora abbastanza squalificato, bisogna associarlo a qualcosa di terribile. Ecco come lavora l’ideologia: non solo al livello dei contenuti evidenti, ma sulle stesse forme espressive.
Allora si prende un termine oggettivamente squalificato come “totalitario” (saltando a piè pari sul fatto che questa definizione, secondo gli storici, è a malapena calzante per il nazismo e lo stalinismo), lo si associa con altri termini vicini, ma per nulla coincidenti e soprattutto vaghi, come “antidemocratico” e “autoritario”, e li si rende interscambiabili. Tutto ciò che non rientra nei canoni della democrazia borghese, è ipso facto diventato totalitario. I regimi dell’Est erano differenti dalla nostra democrazia, dunque erano totalitari – anche se si chiamavano “democrazie popolari” (strana ironia la loro, eh?). Ma questi regimi erano comunisti, dunque tutti i comunisti sono totalitari. E il totalitarismo è l’unica cosa che la democrazia non può tollerare. Dunque la democrazia non può tollerare il comunismo. E si deve impegnare affinché questo crimine non ritorni più.
Attraverso un uso ingiustificato e ripetitivo delle parole e delle loro associazioni, il “comunismo totalitario” è così inculcato, diventa materia non opinabile. Così, fra poco, ci dice ancora il documento, “un’Europa unificata celebrerà il 20° anniversario del crollo delle dittature comuniste”: si dà per scontato il festeggiamento, senza dire cosa ha comportato questo crollo, in termini di vite umane, di aumento della povertà, diminuzione dei diritti, emigrazione di milioni di uomini e donne, sacrificati allo sfruttamento ed alla prostituzione…
Bisogna comprendere che queste risoluzioni segnano un salto di qualità del revisionismo storico. Con l’equiparazione tra comunismo e nazismo (negata da qualsiasi storico serio, e da tutti i maggiori intellettuali europei del novecento, da Thomas Mann a Primo Levi), non si vogliono solo svilire gli ideali di chi ha combattuto per la giustizia e la libertà, né emarginare culturalmente e socialmente persone che hanno opinioni “scomode”. Si tratta di preparare le condizioni per la loro punizione, e di dissuaderli preventivamente a dichiarare le proprie idee. Queste operazioni ideologiche hanno insomma degli effetti concreti. Ispirando la pubblicazione di studi che si rovesceranno nelle università e nei manuali scolastici, utilizzando la Giornata della Memoria come spunto per violente campagne mediatiche, riscrivendo la storia d’Europa come conviene a chi vuole autolegittimarsi, si tenterà di togliere il terreno a chi lavora per una trasformazione dell’esistente.
Dietro la bandiera della lotta al “totalitarismo comunista” si cela quindi la lotta a qualsiasi forma di lotta sociale, di conflitto radicale, in nome di un presunto “equilibro” e di una “moderazione” funzionali alle esigenze del capitale. La criminalizzazione del comunismo coinvolge a largo spettro chiunque non nasconda il suo dissenso, lotti per la sua sopravvivenza, opponendosi ai licenziamenti, occupando una casa, una fabbrica, una facoltà, impedendo che si apra l’ennesima base militare o la discarica sotto casa. Mettendo fuori legge quella parola si mette fuori legge quello che quella parola vuol dire. E si inventano dei nemici, per dimenticarci quelli che abbiamo in casa. Utile, soprattutto in tempo di crisi.
In 1984 di George Orwell “l’eroe dell’epoca totalitaria” passava le sue giornate a rivedere i dizionari, a lavorare alacremente per far sparire certe parole, per creare una neolingua, ben epurata, che impedisse di pensare la dissidenza. Cancellava articoli di giornale, riscriveva la storia, perché “chi controlla il passato controlla il futuro”. Forse un regime capitalista non ha troppo bisogno di parate o di adunate: è tutto molto dispendioso. All’UE bastano le leggi di mercato, i media, la polizia, qualche intellettuale compiacente. Soprattutto, gli basta fabbricare ad arte l’ignoranza e la paura.

Written by eneaminghetti

aprile 23, 2009 at 8:05 am

>Il Tg1 fa lobotomia

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Written by eneaminghetti

marzo 30, 2009 at 11:44 am

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>
Ecco il simbolo della lista comunista e anticapitalista che verrà presentato alle elezioni europee.

Written by eneaminghetti

marzo 28, 2009 at 11:31 am

>Pubblicato sul Financial Times (comment)

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>

Flexibility gives way to rigidity’s virtues

By Paul De Grauwe

Published: February 22 2009 20:23 | Last updated: February 22 2009 20:23

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The economic paradigm developed during the boom years was based on the idea of flexibility. The economically successful countries were those that allowed flexibility in goods and labour markets. Rapid growth lay ahead of them if they permitted companies to hire and fire without restrictions; if wage contracts made it possible for companies to adjust wages up and down quickly to changing economic conditions.

New growth models were developed by academic economists stressing the need for flexibility. International organisations chastised those countries with rigid labour and goods markets and urged them to introduce “structural reforms”. The European Commission was mesmerised by the idea of flexibility and cooked up the Lisbon Agenda with the ambition of transforming the European Union into a flexible economy.

The great role model was the US, which was seen to have a superior economic model thanks to its flexibility.

Today it is becoming increasingly clear that flexibility may not be a quality at all, but a serious handicap. Let us analyse why that is.

Since the outbreak of the financial crisis the world economy has been increasingly gripped by debt deflation. The dynamics of debt deflation are well-known and was described by Irving Fisher 80 years ago. Households and companies (including banks) faced with excessive debt have to sell assets. Asset prices decline, leading to more intense solvency problems elsewhere in the system. Companies are forced to fire workers and/or to reduce their wages. As a result, more households find it impossible to service their debt. Thus, in a debt deflation, the attempts of some to service their debts makes it more difficult for others to service their debts.

The source of the problem is the fact that the level of debt is a fixed nominal variable. The consumer who has to pay back a mortgage of $400,000 faces this rigid payback threat whatever the value of his assets or the value of his wage. Thus the problem of debt deflation is that there is one rigid variable (the value of the debt) while so much of the rest (asset values, wages, employment) is flexible. The more flexible these variables are, the more hellish are the dynamics of debt deflation and the more difficult it is to pull the economy out of it.

It follows that the most flexible economies will suffer most from this. In countries where companies can easily fire workers, or where they can cut their wages on a whim, these same workers will be hit harder by the debt deflation dynamics. They will have to sell their houses and their other assets more quickly, thereby threatening others (including banks) with bankruptcy.

When economies are hit by debt deflation they need circuit breakers. You guessed it: rigidities in wages, prices and employment contracts are such circuit breakers. They slow down the debt deflation dynamics, allowing for a more orderly retreat. Workers do not immediately lose their jobs; their wages are not cut instantaneously, giving some respite in the orderly winding down of debt levels.

Of course, these circuit breakers do not eliminate the debt deflation dynamics; they slow them down. There is one ultimate circuit breaker, however, that has the capacity to stop the dynamics. This is the social security system. “Rigid economies” have been chastised for having too generous social security systems. They pay their unemployed too much for too long. It now turns out that this ultimate source of rigidity is a great advantage. The workers that are made redundant in the rigid countries will have higher unemployment benefits that will sustain consumption and reduce the fall in prices. The debt deflation dynamics hit a floor.

One may argue that since the unemployed in the rigid countries get paid better, the budget deficits in these countries will increase more than in the flexible countries. This is far from certain though. For sure, the governments of flexible countries will spend less on unemployment benefits, but to the extent that the debt deflation leads to a stronger decline in economic activity in these countries, government revenues will decline more. As a result, budget deficits may actually increase more in the flexible countries.

The idea that flexibility is good and rigidity is bad continues to influence the minds of policymakers and analysts. Rating agencies, for example, continue to give a more favourable rating to US and UK sovereign debt based on the notion that the greater flexibility of these countries gives them a better capacity to adjust to the crisis than rigid countries such as Spain, Italy and Ireland.

The opposite is true. Today, rigidities in wages, employment and social security allow countries to deal better with the great rigidity that the fixed levels of debt impose on households and companies. We should cherish these rigidities.

The writer is professor of economics at the university of Leuven and the Centre for European Policy Studies

(trad in ITA)

La flessibilità ceda il passo alle virtù della rigidità Stampa E-mail
Scritto da Paul De Grauwe*, “Financial Times” ( trad. Francesco Fumarola per MdV)
venerdì 13 marzo 2009
Image
Clicca qui per la versione in inglese apparsa sul “Financial Times”
Il paradigma economico sviluppato durante gli anni del boom era basato sull’idea di flessibilità. Il successo economico fu di quei paesi che avevano introdotto la flessibilità nel commercio e nel mercato del lavoro. Una rapida crescita veniva garantita loro se si permetteva alle aziende di affittare e licenziare senza restrizioni; se gli accordi su salario facevano in modo che fosse possibile per le aziende, al mutare delle condizioni economiche, adeguare i salari al rialzo o al ribasso velocemente.

I nuovi modelli di crescita furono sviluppati da insigni economisti che estremizzavano il bisogno di flessibilità. Le organizzazioni internazionali criticavano aspramente quei paesi che avevano commercio e mercato del lavoro rigidi e li esortavano ad introdurre con urgenza “riforme strutturali”.

La Commissione Europea fu ipnotizzata dall’idea della flessibilità e si inventò l’Agenda di Lisbona con l’ambizione di trasformare l’Unione Europea in un’economia flessibile. L’esempio da seguire fu quello degli Stati Uniti, che sembravano avere un modello economico superiore grazie alla loro flessibilità. Oggi sta diventando sempre più chiaro che la flessibilità non può essere affatto una qualità, ma un handicap serio. E vediamo perché. Da quando è scoppiata la crisi finanziaria l’economia mondiale è stata sempre più stretta nella morsa della deflazione da debito .

La dinamica della deflazione da debito è ben conosciuta e fu descritta da Irving Fischer ottant’anni fa. Famiglie ed aziende (comprese le banche) per affrontare l’eccessivo debito hanno dovuto vendere i loro beni. I prezzi delle merci si sono ribassati, conducendo a problemi di solvibilità più intensa da qualche altra parte nel sistema. Le aziende hanno iniziato a prendere di mira i lavoratori e/o a ridurre i salari. Come risultato, un numero maggiore di famiglie s’è trovato nell’impossibilità di estinguere i debiti.

Così, nella deflazione da debito, i tentativi di qualcuno di pagare i debiti ha reso più complicato ad altri di coprire i propri. L’origine del problema sta nel fatto che il livello di debito è una variabile nominale fissa. Il consumatore che deve rimettere un prestito di 400 mila dollari affronta questa restituzione obbligata qualunque sia il valore dei suoi beni o il valore del suo salario. Così il problema della deflazione da debito è che c’è una variabile rigida (il valore del debito) mentre gran parte del resto (valore dei beni, salari, impiego) è flessibile.

Più le variabili sono flessibili, più infernale è la dinamica della deflazione da debito e più difficile è salvare l’economia. Ne consegue che le economie più flessibili soffriranno di più. Nelle nazioni dove le aziende possono facilmente licenziare i lavoratori, o dove esse possono tagliare i salari a capriccio, questi stessi lavoratori saranno colpiti più duramente dalla dinamica della deflazione da debito. Si dovranno vendere le case e gli altri beni più velocemente, minacciando di fallimento gli altri (banche comprese).

Quando le economie sono colpite dalla deflazione da debito essi hanno la necessità di un salvavita. Vediamo di indovinare: proprio rigidità nei salari, nei prezzi e nei contratti di impiego rispondono a questo bisogno. Frenano la dinamica della deflazione da debito permettendo una difesa più sistematica. I lavoratori non perdono immediatamente il lavoro; i salari non vengono tagliati all’istante, consentendo un po’ di tregua attraverso una riduzione regolare dei livelli di debito. Naturalmente, questi salvavita non eliminano la dinamica della deflazione da debito: la rallentano. C’è un salvavita definitivo , che possiede la capacità di fermarla. Si chiama sistema di sicurezza sociale. “Le economie rigide” sono state duramente criticate per avere avuto sistemi di sicurezza sociale troppo generosi. Sovvenzionano la disoccupazione troppo a lungo. Ma si dimentica che questa dirimente risorsa di rigidità è un grande vantaggio. I lavoratori in sovrappiù nelle nazioni rigide avranno più alti benefits di disoccupazione [ammortizzatori, ndr] che sosterranno il consumo e ridurranno la caduta dei prezzi. La dinamica della deflazione da debito si azzera.

Qualcuno può obiettare che poiché il disoccupato nelle nazioni rigide è meglio pagato, il deficit pubblico di queste nazioni crescerà più che nelle nazioni flessibili. Non è per niente certo. Di sicuro, i governi delle nazioni flessibili spenderanno meno per i benefits ai disoccupati, ma nella misura in cui la deflazione da debito produce un rallentamento più accentuato nell’attività economica di questi paesi, le entrate pubbliche diminuiranno in misura maggiore.

Come risultato, il deficit può crescere di più nei paesi flessibili. L’idea che la flessibilità è un bene e la rigidità è un male continua ad influenzare le menti di uomini politici e analisti. Le agenzie di rating, per esempio, continuano a dare rating più favorevoli al debito statale di Stati Uniti e Gran Bretagna, per via della nozione che la maggiore flessibilità di questi paesi dà loro una maggiore capacità di adattarsi alla crisi rispetto a paesi rigidi come Spagna, Italia ed Irlanda.

E’ vero il contrario. Oggi, le rigidità nei salari, nell’impiego e nella sicurezza sociale permette ai paesi di gestire meglio l’estrema severità che i livelli fissi di debito impongono a famiglie e aziende. Non dovremmo essere critici di queste rigidità.

*L’autore è professore di Economia all’Università di Leuven e al Centro per gli Studi Politici Europei
(tradotto dall’Inglese da Francesco Fumarola per MdV)

Written by eneaminghetti

marzo 13, 2009 at 9:27 am