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>Boffo secondo Feltri
>-Boffo/ Feltri: Fu una bagatella, non uno scandalo
“Ammirazione per direttore, potrebbe ancora stare al suo posto”
Roma, 4 dic. (Apcom) – In tutta la vicenda che lo ha riguardato
“Dino Boffo ha tenuto un atteggiamento sobrio e dignitoso che non
pu che suscitare ammirazione”. Anche se il caso non sarebbe
scoppiato “se Boffo invece di secretare il fascicolo lo avesse
reso pubblico, consentendo di verificare attraverso le carte che
si trattava di una bagatella e non di uno scandalo”. Lo scrive
oggi il direttore del Giornale, Vittorio Feltri, che sulla prima
pagina del suo quotidiano afferma che “il caso chiuso” e
riconosce che Boffo, “giornalista prestigioso e apprezzato”, “da
quelle carte non risulta implicato in vicende omosessuali”, e in
esse “tantomeno si parla di omosessuale attenzionato”. Questa “
la verit, e oggi Boffo sarebbe ancora al vertice di Avvenire”.
L’occasione per Feltri la richiesta di chiarimenti di una
lettrice alla quale il direttore del ‘Giornale’ spiega che il suo
‘scoop’ in realt non era tale in quanto un settimanale aveva gi
pubblicato la notizia e che la risonanza dipese dal “risvolto
politico: era un periodo di fuochi d’artificio sui presunti
eccessi amorosi di Berlusconi e il cosiddetto dibattito politico
aveva lasciato il posto al gossip usato contro il premier anche
in tv, oltre che sulla stampa nazionale e internazionale. Persino
l’Avvenire, di solito pacato e riflessivo, cedette alla
tentazione – scrive ancora Feltri – di lanciare un paio di
petardi: niente di eccezionale, per carit, ma quei petardi
produssero un effetto sonoro rilevante. Nonostante ci – assicura
il direttore del quotidiano milanese – non mi sarei occupato di
Dino Boffo se non mi fosse stata consegnata da un informatore
attendibile, direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziario che recava la condanna del direttore a una contravvenzione per molestie telefoniche. Insieme con un secondo
documento (una nota) che riassumeva la motivazione della condanna. La ricostruzione dei fatti descritti nella nota oggi posso dire – ammette Feltri – non corrisponde al contenuto degli
atti processuali”. Tuttavia, all’epoca dei fatti, “giudicammo
interessante il caso per cercare di dimostrare che tutti noi
faremmo meglio a non speculare sul privato degli altri, perch
anche il nostro, se scandagliato, non risulta mai perfetto”.
>Una pagina storica nera per la democrazia italiana
>
Varato il decreto su Eluana, Napolitano non lo firma. Alle 20 nuovo Cdm

Nuovo consiglio dei ministri questa sera alle 20. L’ordine del giorno ufficiale della convocazione prevede “l’esame di un ddl in materia di alimentazione e idratazione” proposto dalla presidenza del Consiglio e dal ministero della Salute.
Le motivazioni del Capo dello Stato
“Io non posso nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti” scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella lettera inviata al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e resa nota dal Quirinale.
La Presidenza della Repubblica ha infatti diffuso una nota nella quale si legge: “Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha preso atto con rammarico della deliberazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto-legge relativo al caso Englaro. Avendo verificato che il testo approvato non supera le obiezioni di incostituzionalità da lui tempestivamente rappresentate e motivate, il presidente ritiene di non poter procedere alla emanazione del decreto”.
Il legale della famiglia Englaro: un atto costituzionalmente ineccepibile
“E’ un atto costituzionalmente ineccepibile”. Cosi’ il prof. Vittorio Angiolini, legale della famiglia Englaro, ha commentato il rifiuto del presidente della
Repubblica di firmare il decreto legge approvato dal consiglio dei ministri relativo al caso di Eluana.
“I rilievi del presidente della Repubblica – ha proseguito il legale – corrispondono ad un illegittimita’ estremamente grave dell’atto a lui sottoposto”.
Per Angiolini “ancora una volta Napolitano si e’ fatto garante della costituzione”.
La delusione del Vaticano
“Sono costernato che in tutte queste diatribe politiche si ammazzi una persona” e
“sono profondamente deluso” dalla decisione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolutano, di non firmare il decreto che avrebbe imposto lo stop all’alimentazione e idratazione a Eluana Englaro. E’ quanto ha affermato il card. Renato Raffaele Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace.
>Cosa significa Obama
>Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all’audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull’etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l’11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.
Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all’altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell’invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell’economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E’ questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia.Questa c’è stata, ma come un’onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria». Attenzione. Qui l’accento batte non sugli aggettivi, democratica e autoritaria, ma sul sostantivo, personalità. C’è un problema preciso, teorico e storico: perché la democrazia, al pari del totalitarismo, ha bisogno, per funzionare, dell’idea e della pratica della personalità? Perché si fa il vuoto nelle istituzioni, e nelle organizzazioni, per riempirle poi con un volto? Problema. E un’altra cosa, meno astratta, più empirica. Da dove sono uscite le enormi risorse finanziarie di Obama, che hanno fatto apparire indigente nientemeno che la famiglia Clinton? In che percentuale sono state esse il frutto della mobilitazione dei neri, delle donne, dei giovani? E quali e quante le altre fonti?La mia idea è netta, e la esprimo in modo netto, perché se ne possa lucidamente discutere: Obama ha vinto, perché a un certo punto l’establishment ha scelto Obama. A un certo punto: all’inizio, solo pezzi di esso si erano esposti, i più avvertiti, di fronte al disastro finale di Bush, poi, con l’esplosione della crisi vera, il grosso non ha avuto più dubbi. E il personaggio è volato nei sondaggi, anch’essi non certo spontanei. In democrazia, vince chi riesce a farsi presentare come il prossimo vincitore. Abilità e forza comunicativa aiutando. Il cambio è niente altro che un cambio di leadership, nel tentativo di riacchiappare un’egemonia che scappa. E siccome si tratta di un’egemonia-mondo, ci vuole un global leader. Poteva assolvere a questa funzione il vecchio soldato MacCain? Evidentemente, no. Guardate lo spostamento dell’opinione pubblica mondiale, di destra, di sinistra e di centro, prima e dopo le elezioni americane. Impressionante. Anche qui è un’onda. Per resistere, bisogna come Ulisse farsi legare al palo della nave, visto che non possiamo non vedere e non udire.La verità è che gli americani sono oggi veramente in tutto debitori dei cinesi. Hanno infatti applicato alla lettera il motto di Deng: non importa se il gatto è bianco o nero, importante è che acchiappi il topo. Miei cari, i topi siamo destinati ad essere noi. Bisogna togliersi dalla testa che il partito democratico sia la sinistra e il partito repubblicano la destra americane. Non sono nemmeno il centrosinistra e il centrodestra, come vorrebbero i nostri ulivisti mondiali. Il bipartitismo perfetto e la perfetta alternanza di governo funzionano soltanto quando ci sono due partiti centrali di sistema. Sì, due diversi bacini di consenso, distribuiti socialmente e territorialmente, due blocchi di interessi tradizionali, molto mobili e trasversali, anche due scale di valori e di diritti, ma il tutto orientato sempre all’uno della grande nazione «eccezionalista». Impallidiscono i nostri nazionalismi europei di fronte a quello americano. Solo che quello non si chiama così. È Impero del Bene, religione democratica universalmente salvifica.
Chi più che un predicatore nero può oggi raccogliere le bandiere che i maledetti neocons hanno lasciato cadere nella polvere della guerra infinita? Se Malcom X diventa Obama, è perché il calderone di fusione ha funzionato alla perfezione. Nessun pericolo. Anzi, una formidabile opportunità. L’America è un luogo dove tutto è possibile: che un nero entri alla Casa Bianca e che diventi quindi un bianco qualunque. La novità c’è. Non è questo il punto. Ma l’arte di disporci dinanzi al nuovo in modo non subalterno, non l’abbiamo forse imparata? Il nuovo non ha un valore in sé, va misurato sulla nostra condizione presente, se siamo in grado di assumerlo e governarlo e piegarlo. Per quanto detto sopra, nei confronti di un cambio di leadership nel bipartitismo americano, io non faccio una scelta strategica, ma tattica. Chi mi conviene che vinca, chi mi lascia più spazio di movimento, chi mi consegna migliore capacità di manovra? Era opportuno uscire dalla grande crisi con Roosevelt, perché così le lotte operaie potevano imporre il compromesso keynesiano. Era giusto allearsi con gli Usa per sconfiggere militarmente il nazifascismo. Si poteva essere kennediani, se avevi alle spalle la forza del Pci e la potenza dell’Urss: non c’era pericolo allora di metterti nell’onda progressista, semplicemente subendola. Anzi ti serviva per innovare nel tuo campo. Il discorso è sempre quello: l’iniziativa di cambiamento del tuo avversario, o sei in grado di utilizzarla, o altrimenti ne rimani vittima. Perché mi sento di dire che non possiamo dirci oggi obamiani? Semplicemente perché siamo deboli. Non c’è in campo nessuna forza alternativa. Questo sarebbe stato il momento di una grande iniziativa del socialismo europeo. Non possiamo dare la supplenza al profeta del nuovo vecchio mondo. Così riconsegni la pratica egemonica, magari passando dall’unilateralismo al multipolarismo, a chi la stava giustamente perdendo. Il modo corretto di porre la questione, parlando politicamente, nel senso specifico del termine, è secondo me il seguente: Obama è adesso la figura nuova che assume il nostro avversario. Va ricollocata e rideclinata una proposta alternativa di organizzazione e di lotta sulla base di questa novità. Si apre un periodo di maggiori difficoltà. Era facile essere contro Bush, sarà difficile essere contro Obama. Si chiudono spazi per le esperienze di movimento, l’unica forma di soggettività emersa negli ultimi anni, non a caso a livello global, sul terreno dei partiti, nazionali, l’intendenza europea seguirà, l’Atlantico si farà più stretto. La luna di miele finirà, ma prima durerà. Tra l’altro, il giovanotto (!) è sveglio, è pragmatico, è cinico, è pigliatutto, ha perfino un pizzico di carisma, è intelligente perché si è circondato di persone mediamente intelligenti. Una machiavelliana presa di potere, perfetta. In questo, chapeau! Agli Stati Uniti d’America, gli unici in grado di far ancora tesoro del detto, mitteleuropeo: là dove c’è il massimo pericolo, lì c’è ciò che salva. Aprite il discorso della vittoria. L’incipit: giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d’America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili. «Siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America». Che dobbiamo fare? Applaudire, alzare le braccia in segno di saluto, piangere di commozione? Confesso. Sono ormai arrivato – il tono di questo testo lo documenta – al limite massimo di sopportazione per questo modo impolitico, apolitico, antipolitico di parlare di politica. Una parentesi. Se ho ben capito come vanno le cose del mondo, e a questo punto di lunga età mi pare proprio che sì, ecco: chiunque dice «ricchi e poveri» è mio nemico. Questo è un criterio del politico, una verità teorica assoluta, un punto di orientamento pratico, che consiglio di coltivare in sé come una pietra preziosa. Chiusa parentesi. E vengo invece a un punto di problema, su cui ho qualche incertezza, perché sento che qui c’è un a partire da me, dal mio modo di esistenza, che potrebbe deviare e far sbagliare il giudizio. E chiedo anche qui un contributo di discussione, e magari una capacità avversa di dissuasione. Insomma. Chi sono queste masse? Parlo delle folle di Chicago e di tutta la lunga intensa campagna obamiana. Ma anche di quelle del Circo Massimo, se sono, anche questo è da discutere, più o meno le stesse. Le guardo con curiosità e diffidenza. A me paiono foglie mosse dal vento delle parole e delle immagini, singoli individui collettivamente incantati dal suono del linguaggio, indifferenti, per non dire ostili, alle idee, agli argomenti, alle analisi. Piazze virtuali, un popolo da second life, che non esprime qualcosa, ma vuole essere espresso da qualcuno. Si potrebbe dire che non è una cosa nuovissima. Il Novecento ha visto fenomeni analoghi. Ma, secondo me, c’è una differenza. La nazionalizzazione delle masse, come la socializzazione delle masse, si fondava su idee forti. Ci si riconosceva in una dottrina, si assumeva e si portava un’ideologia. Il culto del capo era l’appartenenza a un campo, l’assunzione di un progetto. Così la massa si faceva soggetto. E poi la razza, o la classe, erano fattori oggettivi. Qui, oggi, non c’è nulla di tutto questo. C’è solo la fascinazione per una narrazione. Obama non rappresenta i neri, rappresenta tutti. Veltroni non rappresenta i lavoratori, rappresenta i cittadini. E dunque queste piazze sono piene di un niente. È un problema serio, forse il più serio. Penso che accanto all’osservatorio sulle élites, dovremmo ragionare intorno a un osservatorio sulle masse. Come riportare dentro questo politico virtuale il principio di realtà? Da soli, soggettivamente, non ce la facciamo. Ci vuole una scossa sismica di alta intensità, di quelle che fanno saltare i pennini del sismografo. Dire, parlare, della sinistra, piccola o grande che sia, risulta, di fronte alla dimensione del problema, una chiacchiera da bar sul commissario tecnico della nazionale. Ci può aiutare solo la realtà stessa, sempre più ricca, rispetto a noi, di risorse imprevedibili, da scrutare e da utilizzare. Ma quale realtà, o quale pezzo di essa ci conviene che emerga? Qui, il discorso si fa duro, pronunciabile in parte, indicibile per intero. Io, se mai ne ho avuti, a questo punto non ho dubbi: meglio la crisi che lo sviluppo, meglio il conflitto che l’accordo, meglio la divisione aspra del mondo che la sua irenica unità. Sto parlando, realisticamente, del terreno più favorevole a che sorga una soggettività collettiva alternativa. Che non verrà da sola, senza un intervento politico dall’alto, a suggerire e a organizzare.
Stralcio dall’introduzione di Mario Tronti al volume collettivo “Passaggio Obama. L’America, l’Europa, la Sinistra. Una discussione al CRS provocata da Mario Tronti” (Ediesse, pp. 128, euro 9) in uscita a febbraio. I saggi raccolti sono a firma di Rita di Leo, Ida Dominijanni, Mattia Diletti, Luisa Valeriani, Stefano Rizzo e Roberto Ciccarelli. Il libro sarà presentato oggi (Roma, via IV Novembre 119/a, Sala della Pace).
Liberazione, 16/1/09
Risposta di Rossanda
GLI USA E NOI
di Rossana Rossanda
La promessa di Obama
La «Lettera provocatoria» (in Passaggio Obama , Ediesse) di Mario Tronti agli amici del Centro riforma dello Stato contro le aspettative messianiche poste in Barack Obama mi sembra indirizzata più al Partito democratico italiano che al nuovo presidente degli Stati uniti. Obama infatti non si presenta per quel che non è, ha giurato sulla Costituzione del suo paese, si propone di riportarlo al prestigio perduto senza guerra e rimettendone in vigore i diritti politici, non si professa né comunista, né socialista, né socialdemocratico – parole che negli Stati uniti non hanno gran senso. E’ un democratico americano che una sola cosa promette: di cambiare la linea di politica interna ed estera di George W. Bush.
La potrà cambiare come e quanto un eletto del Partito democratico la può cambiare, cioè dentro un sistema capitalistico dove il mercato, parole sue, è imbattibile, ed è l’unico che gli Stati uniti conoscono e cui aspirano. E’ molto? E’ poco? Non è poco. Il capitalismo ha più facce, nessuna amabile, ma da diversi anni, come scrive Paul Krugman, ne presenta una delle peggiori. Che non è nata con Bush, si è affermata con Reagan. L’asse ne è stato un liberismo selvaggio, già fallito quando lo predicava von Hajek, ma ripredicato da Milton Friedman e dai suoi Chicago Boys, seguiti con entusiasmo dal Fondo monetario internazionale, dalle Banche centrali nonché dai trattati della nuova Europa. Lo aveva inaugurato Thatcher nel 1974, con la disfatta dei laburisti, e il crollo dei «socialismi reali» nel 1989 ha indotto ad aderirvi, confusi e pentiti, i partiti che ancora si chiamavano comunisti. E con questo è andato a pezzi quel che restava del «capitalismo benevolo» di marca rooseveltiana e più tardi keynesiana. L’arretramento delle condizioni di vita e della coscienza di sé da parte delle classi subalterne è stato grande, il salto tecnologico che poteva liberarle le ha schiacciate e precarizzate, le loro rappresentanze si sono indebolite e quel che in Europa si intendeva per democrazia – non solo votare ogni quattro o cinque anni ma contrattare salari e essere titolari di diritti di un’altra idea di società si è andato spappolando. Se nel secondo dopoguerra gli stati dell’occidente europeo avevano cercato di gestire il conflitto fra le classi, dalla metà dei ’70 in poi, e precipitosamente con l’89, ne hanno disconosciuto fin l’esistenza. Produrre, come ebbe a dire perfino Berlinguer, diventava un valore in sé. Su questo Bush ha poi innestato la «guerra infinita», appoggiandone la gestione interna sul Patriot Act (del quale, detto per inciso, soltanto il manifesto si è accorto subito). Anche l’Unione europea si è fatta su questa filosofia, e quando Bush ha messo sotto i piedi i bei principi dei quali essa ammantava i vincoli di stabilità, concorrenza e competitività, si è dichiarata tutta americana (Francia esclusa). Quel che è accaduto, facilitando il successo di Obama, è che teoria e pratica liberista hanno deragliato con fracassso. Non sono state le sinistre, la classe operaia o le moltitudini a sbalzarle dai binari, ma l’ipertrofia della finanza – perdipiù virtuale quella su cui si è potuto puntare a profitti impensabili negli investimenti produttivi di beni materiali o immateriali. E’ cresciuta la speculazione, il denaro diventava merce in grado di moltiplicarsi sul nulla, su crediti inesigibili, sui titoli «tossici» che banche e assicurazioni, dopo aver succhiato al di là di ogni limite i consumatori, si sono rimpallate per anni, prima di dover dichiarare di colpo, nel 2008, una bancarotta di dimensioni inimmaginabili. Ora gli stati attingono ai fondi pubblici, che saranno pagati dai contribuenti, per salvare le banche. Le grandi imprese, a partire dall’automobile, cui vengono meno i consumatori, ne chiedono anch’essi l’aiuto. Quello che pareva una bestemmia, dall’oggi al domani è diventato benefico e sollecitato dalla schiera degli economisti già liberisti. Soprattutto se dato gratis, senza contropartita, salvo nel Regno unito e forse negli Usa. Se a questo crollo della finanza, cui seguono a decine di migliaia, fra poco milioni di licenziamenti e una disoccupazione crescente, Obama riuscirà a metter un freno e ristabilire dei controlli, sarà un bene. Non è detto che ci riesca, ma certo non sono in grado di farvi fronte la classe operaia o le masse, senza più né una memoria né un’organizzazione che non vacilli. Anche se Obama riuscirà a mettere fine alla guerra sarà un bene, e non è detto che ci riesca per l’odio seminato nel Medio Oriente e l’ingiustizia assoluta mantenuta da quarant’anni nel conflitto fra Israele e i palestinesi. Per duro che sia riconoscerlo, c’è una dipendenza dalla potenza militare e ancora economica degli Stati Uniti, e un loro anche parziale mutamento di rotta riapre certi margini. Vorrà tentarlo, Barack Hussein Obama? Riuscirà? Tronti ne dubita e in ogni caso non gli basta. Nel dubitare esagera. Quella cui Obama ha dato voce è una rivoluzione simbolica, la sola che pare possibile ai nostri tempi anche a molti suoi interlocutori del Crs e le rivoluzioni simboliche sono comunque meno difficili di quelle che investono alle radici gli assetti di proprietà e di potere, cui peraltro sono necessarie. Quegli Usa che ora hanno intronizzato Obama avevano votato a piene mani il secondo mandato di Bush, a orrori e menzogne della sua guerra già noti. E’ stato necessario che qualcuno svegliasse quel circa 16 per cento di cittadini in più dal sonno astensionista, forse l’eccesso dei morti d’una guerra troppo «infinita», certo un candidato più forte di quanto era stato Kerry e sarebbe stata la sola Hillary. Le prime mosse di Obama hanno confermato, nella chiusura immediata di Guantanamo, di fatto del Patriot Act, e nel mettere il negoziato al di sopra e prima della guerra, che non è un nero sbianchettato. Lo dice anche la chiamiamola così – prudenza dell’Europa e lo spiazzamento non solo di Berlusconi – ha ragione Dominijanni – ma di Sarkozy, per non dire dell’inquietudine di Israele, affrettatasi a lanciare e chiudere la razzia su Gaza finché erano ancora in carica Bush e i suoi. Altro è dire che il passaggio a un capitalismo meno guerrafondaio, più somigliante al «compromesso socialdemocratico», non basta: non basta a Tronti e neanche a me. Ma non è al presidente degli Stati uniti che affiderei una rivoluzione. A me Obama preme perché il suo effetto nella smorta Europa sarà forse di riaggregare le forze di quel vecchio e nuovo proletariato che oggi è preso alla gola ed appare schiacciato. Diversamente da Tronti, io non credo che il massimo di incertezza, sfruttamento e oppressione alimenti di più, se mai l’ha alimentata, una coscienza rivoluzionaria. Al più delle rivolte, che per gli stati sono un problema di ordine pubblico. Né i movimenti sono in grado di sostituire una forza organizzata e capace di egemonia. Essa mi sembra tutta da ricostruire. Come Tronti e, aggiungerei, Rita Di Leo, sono una novecentesca spero non del tutto impagliata: è una definizione che non si vuole affatto scortese di uno degli interlocutori, Mattia Diletti, della «Lettera provocatoria». E’ che fra di noi c’è un lessico comune, cambiato nei più giovani. Un paesaggio dice cose diverse se guardato da un geologo, un agronomo, un possidente, un contadino, un pittore. In questi trent’anni gli sguardi sono cambiati più del paesaggio. Non sarebbe grave se non si affrettassero ad escludersi, anzi. Fra Mario Tronti e me, divisi sulla natura dell’agente di un mutamento di fondo dei rapporti sociali, è comune l’attenzione ai rapporti di proprietà dei mezzi di produzione, come ordinatori non unici ma primi di una società. Per i più giovani non è così. Ma di questo varrebbe la pena di discutere.
>Intervista a Francesco Pazienza
>Il personaggio. Dopo 13 anni di carcere parla Francesco Pazienza
L’uomo dei misteri d’Italia rivela: lingotti per aiutare Walesa
“Io, Gelli e la strage di Bologna”
Ecco le verità della super-spia
di MILENA GABANELLI

Francesco Pazienza
Braccio destro di Licio Gelli, il suo ambiente è il sottobosco di confine fra l’alta finanza e l’alta criminalità, l’alta politica e il Vaticano. Protagonista delle vicende più tragiche della storia italiana degli anni ’80, è depositario di informazioni mai rivelate, altre raccontate a modo suo. Laureato in medicina a Taranto, non ha mai indossato un camice. Negli anni ’70 vive a Parigi e fa intermediazioni d’affari per il miliardario greco Ghertsos. Poi l’incontro con il capo del Sismi, Santovito. Grandi alberghi, yacht, belle donne, sigari rigorosamente cubani e tagliasigari d’oro… Un’altra epoca. Adesso ha 62 anni e fuma le Capri, mentre cammina da uomo libero sul lungomare di Lerici.
Cominciamo dall’inizio: come avviene l’incontro con Santovito?
“Me lo presentò l’ingegner Berarducci, oggi segretario generale dell’Eurispes. Santovito era suo zio, e mi chiese di fare il suo consulente internazionale”.
E perché Santovito le dà questo incarico senza conoscerlo prima?
“Sa, io parlavo diverse lingue e avevo un sacco di relazioni in giro per il mondo. Normalmente non avviene così, ma all’epoca era quasi tutto improntato all’improvvisazione”.
E in cambio cosa riceveva?
“Rimborso spese. Siccome non avevo bisogno di soldi, era quello che volevo: se volevo andare a New York in Concorde, andavo in Concorde. Mi sembrava tutto molto avventuroso”.
Si dice che lei sia stato determinante nella sconfitta di Carter contro Reagan.
“La storia comincia con Mike Ledeen a Washington, che mi aveva presentato Santovito; lui dirigeva il Washington Quarterly e faceva capo ad una lobby legata ai repubblicani (e alla Cia-ndr). Così gli dico: “Guarda che quando c’è stata la festa per l’anniversario della rivoluzione libica, il fratello di Carter ha fraternizzato con George Habbash”, che era il capo del Flp. E a quel punto disse: “Se tu mi dai le prove , noi possiamo fare l’ira di Dio””.
E le prove come se le era procurate?
“Attraverso un giornalista siciliano, Giuseppe Settineri, che io mandai con un microfono addosso ad intervistare l’avvocato Papa, che faceva il lobbista e aveva partecipato alla festa di Gheddafi. Lui raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Le foto dei festini me le avevano fornite Michele Papa e Federico Umberto D’Amato, la testa degli affari riservati del Viminale”.
Il Viminale ha dunque interferito nelle elezioni di un paese alleato?
“Sissignore, però la débacle ci sarebbe stata ugualmente, ma non in misura così massiccia”.
Lei, che non è un militare, diventa capo del Super Sismi. Cos’era?
“Il Super Sismi ero io con un gruppo di persone che gestivo in prima persona”.
Marzo 1981, le Br sequestrano l’assessore campano Cirillo. Lei che ruolo ha avuto?
“Un ruolo importante. Fui sollecitato da Piccoli, allora segretario della Dc. Incontrai ad Acerra il numero due della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, Nicola Nuzzo. Mi disse che in dieci giorni Cirillo sarebbe stato liberato, e così è stato”.
Chi ha pagato?
“Non i servizi. Il giudice Alemi disse di aver scoperto che furono i costruttori napoletani a tirar fuori un miliardo e mezzo di lire, che finirono alle Br”.
Piccoli cosa le ha dato per questa consulenza?
“Niente, assolutamente niente, eravamo amici, non c’era un discorso mercantilistico”. (Del miliardo e mezzo, alle Br finiscono 1.450 milioni. Chi ha imbustato i soldi del riscatto sarebbe Pazienza, che, secondo vox populi, avrebbe taglieggiato le Br tenendo per sé 50 milioni).
A gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene piazzata una valigia con esplosivo della stessa composizione di quello usato nella stazione di Bologna… Ci sono dei documenti intestati a un francese e un tedesco, indicati dai servizi come autori di stragi avvenute a Monaco e Parigi. Si scoprirà poi che si trattava di depistaggio.
“Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non fare emergere la vera verità della bomba di Bologna. Secondo l’allora procuratore Domenico Sica c’era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l’Eni. Vada negli archivi delle sedute parlamentari: il 4 agosto 1980, Spadolini in persona presentò un’interrogazione parlamentare in cui attribuiva la bomba di Bologna a origini straniere mediorientali”.
Ma qual era l’interesse mediorientale?
“L’Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato, e quindi doveva fare un accordo con Malta, per proteggerla in caso di attacchi del colonnello Gheddafi. L’accordo fu firmato, e Gheddafi fece la ritorsione. Ustica porta la stessa firma. Me lo ha raccontato Domenico Sica. Quando tolgono il segreto di Stato la verità salterà fuori”.
Lei è stato condannato a 10 anni per depistaggio, qualche prova a suo carico evidentemente c’era, i servizi segreti li comandava lei.
“Le prove a mio carico erano dovute al fatto che sono stato il braccio destro, mandato dagli americani, per sostituire Licio Gelli alla guida della P2. E siccome Gelli era il motore primo del depistaggio, io che ero il suo braccio destro, automaticamente…”.
Quando è scoppiata la bomba a Bologna dov’era?
“A New York”.
84 morti e 250 feriti, nel suo paese. Lei è consulente del Sismi, non ha pensato: “Adesso bisogna trovare chi è stato”?
“Io no. Perché non è mio compito. I servizi segreti sono come un’azienda. Giusto? Se tu ti occupi di una cosa, non è che dici “adesso parliamo di Bologna, parliamo di Ustica”…”.
1982. Calvi viene impiccato sotto un ponte. Si è parlato di un suo coinvolgimento.
“Sì, e qual era il mio interesse? Io non sono stato mai neanche indagato nell’omicidio Calvi. La sua morte è un mistero anche per me, comunque non si uccide Calvi a livello di Banda della Magliana… E non mi venga a dire che l’MI5 non sapesse che Calvi si trovava a Londra da giorni! I giochi di potere erano molto più grossi. Capisce cosa voglio dire?”.
No.
“La morte di Calvi e lo scandalo del Banco Ambrosiano avrebbero imbarazzato pesantemente il Vaticano, che insieme all’Arabia Saudita voleva Gerusalemme città aperta a tutte le religioni, e Israele era contrario. Poi c’era lo scontro politico interno italiano, c’erano i comunisti, che hanno preso una valanga di soldi dal Banco Ambrosiano. Non è così semplice dire è A, B o C”.
Di chi erano i soldi che andavano verso la Polonia?
“Arrivavano dai conti misti Ior-Banco Ambrosiano. L’organizzatore era Marcinkus d’accordo con papa Wojtila. Sono stato io a mandare 4 milioni di dollari in Polonia”.
Ma come ha fatto tecnicamente?
“Vicino a Trieste, abbiamo fatto preparare una Lada col doppio fondo e dentro c’erano 4 milioni di dollari di lingottini d’oro di credito svizzero. Era aprile 1981, un prete polacco venne a ritirare questa Lada e la portò a Danzica. Qual era il discorso? Agli operai in sciopero non potevamo dare gli zloty, né i dollari perché i servizi segreti polacchi se ne sarebbero accorti. Anche perché lei può fare il patriota come vuole, però se a casa ha 4 bambini e non ha come farli mangiare, lo sciopero non lo fa. Giusto?”.
Ma lei perché si portava su un aereo dei servizi segreti un ricercato per tentato omicidio, braccio destro di Pippo Calò, capo della banda della Magliana?
“Lei sta parlando di Balducci. Io sapevo che era uno strozzino, ma non è mai salito su un aereo dei servizi. Usava lo pseudonimo di Bergonzoni e una volta lo feci passare a Fiumicino mentre proveniva da Losanna. Era un favore che mi chiese il prefetto Umberto D’Amato, suo amico intimo”. (Per questo “favore” Pazienza fu condannato per favoreggiamento e peculato: fu accertato che aveva trasportato, su un aereo dei servizi , il latitante Balducci sotto falso nome).
Nell’84 lei deposita da un notaio un documento intitolato “operazione ossa”. “Ossa” starebbe per Onorata Società Sindona Andreotti. Che cos’era?
“All’epoca c’era il pericolo che Sindona potesse inventare dei coinvolgimenti di Andreotti in questioni di crimini organizzati. Bisognava capire cosa volesse fare Sindona per tirarsi fuori dai guai prima di rientrare in Italia quando si trovava nel carcere americano di New York”.
Ci siete riusciti?
“Non c’è stato bisogno di fare nessuna misura attiva, ne abbiamo fatta una conoscitiva”.
La misura attiva qualcuno l’ha fatta quando è finito nel carcere italiano…
“Qui parliamo del 1986. Nel carcere italiano ha bevuto un caffè di marca Pisciotta…”.
Lei in quante carceri ha soggiornato?
“Alessandria, Parma e alla fine a Livorno.
Complessivamente ho fatto 12 anni di carcere gratis”.
Non si ritiene colpevole di nulla?
“Zero. Le racconto una cosa, 30 marzo 1994: un maggiore della Dia, nome M. cognome M. mi dice: “Lei è un uomo informatissimo, ci deve raccontare di come portava le lettere di Fabiola Moretti (compagna di De Pedis, componente della banda della Magliana, coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi-ndr) al senatore Andreotti, nel suo ufficio privato. Sa, fra poco esce la sentenza di Bologna, e noi la mettiamo a posto”. Io gli ho detto: “A me di Andreotti non importa niente. Il problema è che quel che lei mi chiede di ricordare non è vero”. Avevo il microfono addosso. Sa qual è la cosa comica? Che molti pensano che io sapessi di questo e di quell’altro e che non ho detto niente perché sono un duro. Non ho detto niente perché non sapevo. Capisce la differenza?”.
Quando è uscito dal carcere dove è andato?
“A casa dei miei genitori, comunque non è un problema ricominciare da capo”.
Cosa fa ora per sbarcare il lunario?
“Il consulente per transazioni internazionali. Sto trattando un cementificio in Africa”.
Come pensa di ricostruirsi una credibilità?
“La storia non è finita, sta cominciando il secondo tempo”.
Erano 25 anni che volevo incontrare il grande faccendiere. Una curiosità tutta personale, volevo vedere in faccia l’uomo che ha fatto da cerniera in tutti i misteri profondi di questo paese. Ci vuole grandezza anche per essere protagonisti di grandi drammi. Invece si incontrano delle comparse, figure che si dimenticano. Sembrano scelte apposta.
Cosa ricordo io di quel 2 agosto? Ero andata a prenotare delle cuccette. Nell’atrio tanta gente che andava e veniva, in un sabato di ferie, e i ragazzini che fanno sempre un gran casino, fra la biglietteria e il marciapiede del binario 1. L’immagine successiva non ha sonoro: è quella di un luogo irriconoscibile coperto dalla polvere. E poi il bianco di un lenzuolo che attraversa la città, appeso alle porte di un autobus. Per qualche anno, ho avuto paura tutte le volte che andavo in stazione. Da 15 anni prendo un treno tutte le settimane, vado di fretta, e non guardo mai lo squarcio coperto da un vetro, non guardo mai l’orologio fermo alle 10.25. Ogni anno il 2 agosto osservo da lontano la gente che si raduna per commemorare. Qualche volta mi viene da piangere.
(30 gennaio 2009)
>Chiamparino vuole la grande coalizione.
>Apc-ELEZIONI/ CHIAMPARINO: PD SIA DISPONIBILE A LARGHE INTESE CON FI
“Antipolitica si batte solo con politica del fare”
Roma, 7 feb. (Apcom) – “In campagna elettorale il Pd deve dimostrare che è disponibile alle intese e a una fase di convergenze, le più ampie e le più coese possibili, per ricostruire l’Italia. Anche con Forza Italia e con Silvio Berlusconi…“. Lo afferma il sindaco di Torino Sergio
Chiamparino in un colloquio con l’Espresso nel quale spiega che dopo le elezioni Veltroni deve proporre un governo di ricostruzione con Forza Italia.
“L’elettorato non si divide più tra destra e sinistra, ma tra l’antipolitica e la politica del fare – spiega Chiamparino -. I cittadini chiedono ai politici di mettersi insieme e di fare qualcosa di buono. Se il Pd sarà in sintonia con questa domanda, potrà cambiare il segno alla campagna elettorale”. E sulle candidature del Pd il sindaco di Torino chiede il rinnovamento delle liste, “un nuovo album fotografico”, e la consultazione degli iscritti. La scelta del Pd di Veltroni di correre da solo “è un passaggio necessario e indispensabile per marcare la discontinuità con il passato e per segnalare l’esistenza di un nuovo soggetto politico. Il vero elemento che ha affondato il
centrosinistra nella legislatura è stato l’eccessiva latitudine della coalizione. Quante volte il presidente del Consiglio in questo anno e mezzo è stato costretto a intervenire per ripetere
ovvietà, tipo che chi faceva parte del governo non doveva andare a manifestare contro il governo? Ora dobbiamo mettere su coalizioni omogenee e programmi chiari. Senza torte in faccia con chi non ci sta, per carità. Ma è un passaggio essenziale, che va abbinato a un ragionevole rinnovamento dell’album fotografico con cui ci presentiamo”.
Quanto al rinnovamento Chiamparino osserva che “per ora il Pd è la pura trasposizione dei gruppi che c’erano prima ma le elezioni possono trasformarsi nell’occasione per rimescolare le carte. Sul piano dei contenuti, per esempio. Sulla politica estera, cosa diciamo? E sulle questioni etiche: siamo per la laicità non solo delle istituzioni ma anche della politica, o no? Se queste
discussioni verranno fatte sul serio i confini non potranno rimanere gli stessi di quando c’erano Ds e Margherita. E poi c’è il metodo di scelta degli eletti: con le liste bloccate non si può andare al voto senza una qualche forma di consultazione della base”. Primarie per tutti i candidati? “Non sono un demagogo – conclude Chiamparino -: è giusto che i gruppi dirigenti nazionali possano candidare alcuni nomi che ritengono importanti per il partito, per esempio un tecnico che
magari è poco radicato sul territorio. Ma su tutti gli altri la consultazione tra gli iscritti è indispensabile: anche questo può contribuire a rimescolare le carte all’interno”.
>Morto Arrigo Boldrini "Bulow"
>Le agenzie.
MORTO ARRIGO BOLDRINI, IL COMANDANTE PARTIGIANO ‘BULOW’
(ANSA) – RAVENNA, 22 GEN – E’ morto Arrigo Boldrini, storico comandante partigiano ‘Bulow’ e presidente onorario dell’Anpi. Aveva 92 anni e dall’8 gennaio era ricoverato in gravi condizioni all’ ospedale di Ravenna. I medici avevano definito ”critico” il suo quadro clinico.
Membro dell’Assemblea Costituente e importante esponente del Pci del dopoguerra, Boldrini viveva da alcuni anni nella ‘Casa della Fraternita” a Marina Romea, localita’ del litorale
ravennate. (ANSA).
MORTO ARRIGO BOLDRINI, STORICO ‘COMANDANTE BULOW’/ANSA
TRA COSTITUENTE E ANPI, LA STORIA PARALLELA CON ZACCAGNINI
(ANSA) – RAVENNA, 22 GEN – Arrigo Boldrini, lo storico comandante partigiano ‘Bulow’ morto questa mattina all’ospedale di Ravenna, per molti anni presidente nazionale dell’Anpi, era nato nella citta’ romagnola il 6 settembre 1915. Da tempo – prima dell’ultimo ricovero avvenuto l’8 gennaio, quando le sue condizioni si erano aggravate – viveva nella Casa della Fraternita’ ‘Betania’ a Marina Romea, gestita da un amico sacerdote, don Ugo Salvatori.
Il 4 dicembre 1944 i partigiani di Boldrini, comandante della 28/a Brigata Garibaldi ‘Mario Gordini’, e i reparti alleati dell’VIII Armata britannica liberarono Ravenna con un’offensiva
combinata. Esattamente due mesi dopo ‘Bulow’ fu decorato con la medaglia d’oro al valor militare, con una grande manifestazione pubblica nella piazza di Ravenna, dal generale Richard McCreery, comandante dell’Ottava Armata. Lo aveva ricordato cosi’ il 25 aprile di tre anni fa, in occasione delle celebrazioni per il 60/o della Resistenza, l’allora sindaco Vidmer Mercatali.Perche’ quella fu la prima assenza di Boldrini nel giorno della Festa della Repubblica.
Poco meno di un anno prima, nell’agosto 2004, ‘Bulow’ aveva lanciato il suo ultimo appello da presidente dell’Associazione partigiani (quando la maggioranza al governo annuncio’ di voler tagliare i fondi proprio per la celebrazione dei sessant’anni della Resistenza) chiedendo contributi ai Comuni e ai cittadini ”perche’ – aveva detto – bisogna ricordare degnamente il cemento del’identita’ e dell’unita’ nazionale”.
Arrigo Boldrini, educato all’amore per la liberta’ – ricorda l’Anpi – dal padre, una popolare figura di internazionalista romagnolo, si portava addosso il soprannome di ‘Bulow’ dal ’44.
”Durante una riunione clandestina – spiego’ in un’intervista – dissi che non si poteva abbandonare la pianura al nemico tedesco, che era necessaria la ‘pianurizzazione’ della guerra partigiana, e spiegai come si poteva liberare Ravenna. Michele Pascoli, barbiere comunista (sara’ fucilato dai nazisti), mi lascio’ parlare, poi in dialetto mi chiese: ‘Mo’ chi sit, Bulow?, cioe’ ‘Ma chi sei, Bulow?’, alludendo al generale tedesco che sconfisse Napoleone. Cosi’ Pascoli decise il mio nome e io sono rimasto per sempre ‘Bulow”’.
Nel novembre ’89 ‘il comunista Boldrini’ tenne l’orazione funebre per Benigno Zaccagnini, il partigiano ‘Tommaso Moro’, che era stato segretario Dc ma soprattutto suo intimo amico, una
storia parallela cominciata nella canonica di Piangipane, paese ad una decina di chilometri da Ravenna. Dopo la guerra – ricordava – avevano fatto un patto: chi fosse sopravvissuto all’
altro avrebbe fatto il discorso al funerale. E cosi’ fu.
‘Bulow’ fu componente dell’Assemblea Costituente, parlamentare dal ’53 al ’94, presidente Anpi, oltre che dirigente nazionale del Pci: ”La tua azione – ricordo’ da presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in un messaggio di auguri per il 90/o compleanno – e’ sempre stata ispirata a principi di liberta’ e di democrazia, valori che nel ruolo di presidente dell’Anpi hai promosso presso le nuove generazioni, mantenendo desta la memoria storica di quell’ eroico e drammatico periodo fondante della nostra repubblica”. ”E’ un eroe – scrisse di lui Giancarlo Pajetta – Non e’ il soldato che ha compiuto un giorno un atto disperato, supremo, di
valore. Non e’ un ufficiale che ha avuto un’idea geniale in una battaglia decisiva. E’ il compagno che ha fatto giorno per giorno il suo lavoro, il suo dovere; il partigiano che ha messo
insieme il distaccamento, ne ha fatto una brigata, ha trovato le armi, ha raccolto gli uomini, li ha condotti, li conduce al fuoco”.
Durante una manifestazione per il cinquantesimo della Resistenza, lo stesso Boldrini sintetizzo’ cosi’ la sua opera: ”Noi abbiamo combattuto per quelli che c’erano, per quelli che non c’erano e anche per chi era contro…”. Questa – ricordano in tanti – e’ stata sempre la sua profonda, autentica e leale convinzione.(ANSA).
RESISTENZA: MORTO A RAVENNA ARRIGO BOLDRINI, CAPO PARTIGIANI (2)=
(AGI) – Ravenna, 22 gen. – Arrigo Boldrini, noto come
‘Comandante Bulow‘, fu membro dell’Assemblea Costituente, fu per decenni esponente di spicco del Pci e rappresentava il riferimento storico dei partigiani italiani. Dal 1947 in poi,
per alcuni decenni, fu segretario nazionale dell’ANPI, l’associazione nazionale dei partigiani d’Italia. Il sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, nel ricordarne a caldo la figura,
appena appresa la notizia della morte ha detto: “Arrigo Boldrini ci ha lasciato. Abbiamo perso un grande italiano. La sua scomparsa lascia un vuoto enorme. Boldrini, il Comandante
“Bulow“, Medaglia d’Oro al Valor Militare, e’ stato protagonista e guida della Resistenza, che in Italia e a Ravenna uni’ le grandi forze democratiche. Membro della Costituente ha dato all’Italia una Costituzione democratica e moderna. Parlamentare dal 1953 al 1994 ha contribuito alla
ricostruzione e alla rinascita della democrazia e della societa’ italiana. Presidente dell’Anpi e’ stato sempre in prima fila nella difesa e nel rinnovamento delle nostre istituzioni. Boldrini ci ha lasciato una straordinaria eredita’ politica e morale. Ravenna, citta’ di grandi tradizioni civili e democratiche, e’ orgogliosa di averlo avuto fra i suoi figli migliori”. (AGI)
MORTO ARRIGO BOLDRINI: LA MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D’ORO
(ANSA) – RAVENNA, 22 GEN – ”Ufficiale animato da altissimo entusiasmo e dotato di eccezionale capacita’ organizzativa, costituiva in territorio italiano occupato dai tedeschi due brigate di patrioti che guidava per piu’ mesi in rischiose e sanguinose azioni di guerriglia”. Comincia cosi’ la motivazione della Medaglia d’oro al valor militare conferita a Ravenna nel febbraio ’45 ad Arrigo Boldrini dal generale Richard Mc Creery, comandante dell’ VIII Armata britannica.
”Nell’imminenza dell’offensiva alleata nella zona – prosegue la motivazione – sosteneva alla testa dei propri uomini e per piu’ giorni consecutivi duri combattimenti contro forti presidi tedeschi, agevolando cosi’ il compito delle armate alleate. Successivamente, con arditissima azione, costringeva il nemico ad abbandonare un’importante localita’ portuale adriatica che occupava per primo. Benche’ violentemente contrattaccato da forze corazzate tedesche e ferito, manteneva le posizioni conquistate, contrastando con inesauribile tenacia la pressione avversaria. Si univa quindi con i propri uomini alle armate anglo-americane, con le quali continuava la lotta per la liberazione della Patria”.(ANSA).