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Via Giorgio Almirante, terrorista
Gennaro Carotenuto,
Domenica 25 Maggio 2008, 13:13
In molti hanno scritto dell’Almirante antisemita e dell’Almirante massacratore repubblichino e ci vuole un tir di Maalox (o lo stomaco di Veltroni, “nulla fermerà il dialogo con il PDL”) per mandarlo giù.
Ben pochi invece si sono soffermati sul fatto che Giorgio Almirante fu amnistiato solo perché ultrasettantenne dal reato di favoreggiamento aggravato agli autori della strage di Peteano, nella quale tre carabinieri furono fatti saltare in aria.
Giorgio Almirante, il grande statista al quale Gianfranco Fini rende omaggio e Gianni Alemanno vuol dedicare una strada romana, per la legge italiana è però un terrorista complice dell’assassinio di tre carabinieri. Ecco tutta la storia.
Il 31 maggio 1972, in Peteano di Sagrado, in provincia di Gorizia, mentre in televisione trasmettevano Inter-Ajax, morirono dilaniati in un attentato il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Bongiovanni di 33 e 23 anni. Rimasero gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere Giuseppe Zazzaro.
Nonostante i morti fossero tre poveri carabinieri (nella foto), immediatamente una cortina di depistaggi fu elevata per coprire i responsabili. Come per Piazza Fontana si diede per anni la colpa ai rossi; la strategia della tensione serviva per quello e funzionava così.
Tra i principali depistatori vi fu il generale Dino Mingarelli, condanna confermata in Cassazione nel 1992 per falso materiale ed ideologico e per soppressione di prove, e il generale piduista Giovanbattista Palumbo, che all’epoca era comandante della divisione Pastrengo di Milano e che aveva competenza su tutto il Norditalia, che inventò la pista rossa di sana
pianta. Per difendere gli assassini di tre carabinieri due dei maggiori in grado dell’arma delle vittime, per anni ne fecero di tutti i colori, manomettendo e facendo sparire le prove, come si legge nelle sentenze e come racconta benissimo il giudice Felice Casson in un libro intervista che
uscirà in futuro.
La strage avvenne a 15 giorni dall’omicidio Calabresi e tre settimane dopo le elezioni politiche del 7 maggio nelle quali l’MSI era cresciuto fino all’8.67%, massimo storico e ad un passo dal PSI. I colpevoli materiali della strage, condannati all’ergastolo con sentenza definitiva, erano gli iscritti all’MSI friulano Carlo Cicuttini e Vincenzo Vinciguerra insieme ad Ivano Boccaccio, ucciso pochi mesi dopo i fatti in uno strano tentativo di dirottamento aereo all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, in ottobre. Con Peteano c’entrano tutti, i vertici dei carabinieri, l’MSI (al quale erano iscritti tutti i terroristi) la P2, Gladio, i servizi italiani e la CIA nel pieno della strategia della tensione. Destabilizzare per stabilizzare.
Per trappolare la 500 di Peteano furono usati materiali di Gladio conservati ad Aurisina e tecniche che venivano insegnate alla Folgore a Pisa. Risoltosi il problema di Boccaccio, restavano Cicuttini e Vinciguerra. Abbiamo già detto che la strategia della tensione serviva a destabilizzare per stabilizzare e proprio l’MSI la stava capitalizzando, come il voto del 7 maggio aveva appena dimostrato. E quindi i camerati andavano salvati. E qui interviene il nostro. Dopo la morte di Boccaccio a Ronchi, Vinciguerra e Cicuttini, segretario dell’MSI a San Giovanni a Natisone, in provincia di Udine, che faceva i comizi con Giorgio Almirante, nonostante non fossero
ancora stati inquisiti per Peteano (le piste fasulle staranno in piedi per anni), si erano comunque resi latitanti. Latitanza dorata nella Spagna di Francisco Franco, dove il loro punto di riferimento era Stefano delle Chiaie e dove con questo si dedicavano al traffico d’armi. Cicuttini sposò perfino
la figlia di un generale. C’era un solo punto debole del piano: la voce di Cicuttini registrata sia nei comizi dell’MSI sia nella telefonata con la quale Cicuttini attira i carabinieri nella trappola a Peteano.
E fu proprio Giorgio Almirante, il fascista in doppio petto, quello
rispettabile, quello con il senso dello Stato, a proteggere l’autore della
strage di Peteano fino a mandargli 34.650 dollari statunitensi in Spagna
proprio per operarsi alle corde vocali. Ciò è processualmente provato.
Almirante consegnò personalmente i soldi all’avvocato goriziano Eno Pascoli che li fece avere a Cicuttini a Madrid, via Svizzera. Almirante e Pascoli,
incriminati per favoreggiamento dell’autore della strage di Peteano furono
rinviati a giudizio insieme. Ma mentre Pascoli sarà condannato, la condanna
di Almirante seguirà un corso diverso. Il capo dell’MSI godeva infatti
dell’immunità parlamentare dietro la quale si trincerò perfino per evitare
di essere interrogato. La tirò avanti per anni di battaglie nelle quali non
fu mai in dubbio la sua colpevolezza, finché non intervenne un’amnistia
praticamente ad personam, della quale beneficiava solo in quanto
ultrasettantenne. Giorgio Almirante, l’uomo d’ordine, dovette chiedere per
sé l’amnistia perché il dibattimento lo avrebbe condannato e ne beneficiò
(mentre il suo complice fu condannato) per il reato di favoreggiamento
aggravato degli autori (militanti e dirigenti del suo partito) di un
attentato terroristico nel quale vennero uccisi tre carabinieri. Non si
parla di violenza politica o di strada, di giovani di destra e sinistra che
si fronteggiavano e a volte si ammazzavano; stiamo parlando del peggiore
stragismo. Dedichiamogli una strada, lo merita: Via Giorgio Almirante,
terrorista.
>Fosco Giannini su Appello Comunisti Uniti
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>famiglia cristiana contro la 194
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Il settimanale dei Paolini sottolinea che la 194 “ha sicuramente contribuito, lo dicono i numeri, all’inverno demografico”, ma è una legge che “non si riesce a rivedere”, è “un tabù intoccabile, in un paese dove si cambia perfino la Costituzione”, una norma che “intendeva far ‘emergere’ l’aborto” ma che, in pratica, “l’ha legalizzato”.
“I politici più avveduti, già allora, si posero il problema. Giovanni Berlinguer, senatore del Pci, disse: ‘Dopo un congruo periodo di applicazione, dovremmo riesaminare le esperienze pratiche, le acquisizioni scientifiche e giuridiche e assicurare da parte di tutti i gruppi parlamentari l’impegno a introdurre nella legge le modifiche necessarie’. Esattamente quello che non è stato mai fatto”.
“Oggi – si legge nell’editoriale – non è più sufficiente proporre una migliore applicazione senza toccare nulla dal punto di vista legislativo. Tutti ormai, se si escludono frange femministe fuori dalla storia, Pannella e la solita rumorosa pattuglia radicale (sempre più esigua), hanno abbandonato la vecchia formula che l’aborto è ‘questione di coscienza’, affare privato che non attiene alla sfera del bene comune. L’aborto è un fatto di rilevanza pubblica e politica. Oggi in Parlamento ci sono i numeri per sgretolare il ‘mito della 194’. Si tratta di una maggioranza trasversale che, in primo luogo, fa appello ai politici cattolici”.
>Rinaldini e la posizione della FIOM sulla riforma del contratto
>l no della Fiom a Epifani Rinaldini: «Diritto al dissenso»
di Loris Campetti
su Il Manifesto del 17/05/2008
Il 76% dei delegati Fiom approva la mozione di Rinaldini: nessuna unità senza democrazia. Lunedì, confronto tra le segreterie Fiom e Cgil
«E’ dal tempo della prima tessera del Pci, avevo 15 anni, che ascolto appelli al senso di responsabilità», dice il segretario generale Fiom Gianni Rinaldini, «anche su scelte che poi tutti avrebbero definito sbagliate». Ma questa volta l’appello non è recepibile perché alla definizione della piattaforma unitaria sulla riforma dei contratti non si è arrivati attraverso un percorso democratico. Così come «nel ’66 Pietro Ingrao rivendicò il diritto al dubbio, io oggi rivendico il diritto al dissenso». Anche il centralismo democratico ha le sue regole. La conclusione della conferenza d’organizzazione della Fiom ha formalizzato quel che era risultato già evidente durante l’intervento del segretario generale della Cgil: Guglielmo Epifani non ha convinto i suoi metalmeccanici. Nel metodo, perché la piattaforma unitaria non ha avuto momenti di validazione democratica, con l’esclusione di un comitato direttivo nazionale della Cgil. Né i gruppi dirigenti delle categorie, né i delegati si sono potuti esprimere, figuriamoci i lavoratori a cui verrà presentato al termine del percorso il testo di un accordo da prendere o lasciare. Nel merito, la Fiom non condivide l’idea di sindacato che sta dietro la piattaforma e, verosimilmente, il futuro accordo con Confindustria e governo. Un sindacato più legittimato dal rapporto con l’antagonista e la politica che non dal rapporto democratico con i lavoratori. Lo svuotamento del contratto nazionale, ridotto al mero recupero dell’inflazione, e il vincolo che lega gli aumenti nei contratti di secondo livello alla produttività e redditività d’impresa, sono intesi dalla grande maggioranza della Fiom come un arretramento, persino rispetto agli accordi del luglio ’93 che pure tutti ritengono superati e responsabili della perdita di potere d’acquisto dei salari.
Ciò vuol dire che la strada della Fiom si separa da quella della Cgil? Ovviamente no, e «quando ci sarà da difendersi e da difendere i lavoratori dagli assalti di Confindustria e del governo, i metalmeccanici saranno in campo con la lotta». Lunedì mattina le due segreterie si incontreranno e i reciproci percorsi da qui all’eventuale accordo sui contratti (e al congresso della Cgil) saranno più chiari a tutti. L’ultima giornata di lavori della conferenza d’organizzazione della Fiom ha registrato la compattezza della categoria intorno al suo gruppo dirigente. E il voto sulle mozioni finali ha ribadito i rapporti di forza interna: 70 voti alla minoranza (17%), 31 astenuti (17%) e 312 (76%) sì alla maggioranza di Rinaldini. Fausto Durante che si rifà alle posizioni di Epifani ha registrato addirittura una lieve riduzione di consensi rispetto al numero di delegati su cui poteva contare.
In mattinata Giorgio Cremaschi aveva sostenuto con convinzione la relazione del segretario (come ha fatto anche l’area Lavoro e società della Fiom): «I dissensi fanno bene all’organizzazione», e potrebbero rappresentare uno strumento in più per Epifani contro le aggressioni padronali e governative. Cremaschi ha richiamato, come molti altri intervenuti, il pericoloso impasto determinato dalla sconfitta politica e dalla regressione sociale che hanno effetti devastanti, a partire dalla caccia ai diversi, ai rom, ai più deboli (l’assemblea di Cervia ha votato quasi all’unanimità una mozione che richiama alla solidarietà). E alla Cgil ha detto: «Senza la Fiom non andate da nessuna parte». Tra gli interventi più applauditi quello di Maurizio Landini della segreteria Fiom: i padroni «vogliono cancellare la contrattazione collettiva» per passare all’elargizione unilaterale di salario. E sulla piattaforma unitaria, Landini si è espresso da sindacalista: «Io so che in una trattativa, per riuscire a far passare i miei obiettivi devo almeno proporli», mentre le confederazioni si presentano all’incontro con le controparti senza neanche provare a difendere la possibilità di aumentare i salari con i contratti nazionali e di slegare quote importante di aumenti nei contratti aziendali dall’andamento degli utili d’impresa.
La Fiom ha avanzato una proposta, ha ribadito Rinaldini nelle conclusioni: avviare un’analisi attenta dei cambiamenti, della realtà nella quale ci troviamo a operare. Un’operazione simile a quella voluta dopo la sconfitta del ’55 da Giuseppe Di Vittorio. Solo così è possibile costruire il sindacato del futuro, sapendo che in Italia è in crisi come in tutt’Europa. Lo scenario globale e gli effetti devastanti della globalizzazione neoliberista sono ancora al centro dell’analisi di Rinaldini. Gli effetti si leggono nello smottamento culturale della società italiana, dove i lavoratori sono messi gli uni contro gli altri, i più forti contro i più deboli, i migranti, i precari. Serve una svolta, una rottura con il recente passato, la riconquista di un’autonomia che negli anni del governo Prodi si è affievolita, in quei due anni, cioè, in cui si sono aperte troppe porte all’arrembaggio che oggi annunciano le destre e la Confindustria, sugli straordinari come sulla defiscalizzazione degli aumenti strappati nei contratti di secondo livello. Dire che alla Fiom non interessa la contrattazione articolata, hanno detto tutti gli intervenuti, è una sciocchezza smentita dalla pratica quotidiana dei metalmeccanici. Il tentativo, pacato, di Fammoni di interpretare la piattaforma unitaria come uno strumento utile per difendere la solidarietà generale ha convinto una risicata minoranza dei delegati, mentre lo stesso segretario confederale ha ammesso che sul terreno della democrazia la strada percorsa non è stata delle migliori.
Lunedì, dunque, un primo confronto tra le segreterie della Cgil e della Fiom. Qualcosa si è rotto, o meglio, un rapporto che da tempo segnalava forti difficoltà e differenze ha mostrato a Cervia tutte le sue crepe. Al centro del confronto ci sarà la democrazia (interna e nel rapporto con i lavoratori) e i contenuti di quella che si può cominciare a chiamare la svolta strategica della Cgil. Una svolta, dicono molti delegati al termine della conferenza, che potrebbe rendere il sindacato di Epifani sempre più simile a quello di Bonanni.
>Il manifesto di Nichi Vendola
>SINISTRA: NICHI VENDOLA, IL NOSTRO SBAGLIO TROPPO ODIO =
COSI’ ERANO I COMUNISTI ORA SMETTIAMOLA, SONO CATTOLICO E GAY
SENZA SENSI DI COLPA
Roma, 14 mag. (Adnkronos)- “Vengo da una cultura politica che ha
molto odiato. E non voglio piu’ odiare”. Nichi Vendola, governatore
delle Puglie, l’uomo che si e’ candidato alla successione di Fausto
Bertinotti alla guida di Rifondazione, traccia cosi’, in una lunga
intervista a “La Stampa”, la sua idea e la sua filosofia di una
sinistra diversa. E riguardo il suo impegno nel salvataggio di
Rifondazione, afferma: “Non e’ la prima volta che mi trovo ad
incarnare il ruolo di chi partecipa a sfide impossibili. Dal punto di
vista del rischio non sono turbato”.
“Credo sia giusto adattarsi ad una condizione completamente
nuova come quella di un partito schiantato e mettere a disposizione la
mia immagine la cui popolarita’ e’ molto oltre il recinto di
Rifondazione per tentare un operazione che dica: la salvezza del mio
partito non e’ un’operazione di restauro ma e’ la capacita’ di
riaprire il cantiere dell’innovazione politico culturale”, dice
Vendola che si definisce “un cattolico ed un gay senza sensi di
colpa”. Quindi sul risultato elettorale taglia corto: “Difficile
immaginare che potesse andare peggio”.
“I nostri problemi -afferma Vendola– vanno affrontati di petto,
senza cercare capri espiatori. Se c’era la falce e martello? se non
c’era Veltroni? argomenti da talk show”. “Non c’e’ stato -ricorda- un
commento dell’Arcobaleno alla sconfitta. Ognuno in ordine sparso ha
commentato e si e’ tirato indietro. Prova che l’Arcobaleno non c’era,
era un’illusione ottica, una cosa posticcia e artificiosa. Agli
elettori siamo apparsi un residuo, un cimelio, un cumulo di velleita’
e di inefficacia”. (segue)
E Vendola, definito immagine vincente di
Rifondazione, commenta: “Sono stato il simbolo di una somma di
minoranze che non si sono poste in termini minoritari. Comunista, gay,
cattolico dell’estrema sinistra? tutti filoni eterodossi. La sfida e’
stata identificare un nuovo popolo. Si vince e si perde solo ed
esclusivamente sul piano dell’ideologia”. E se si avanza l’ipotesi che
le ideologie non hanno piu’ spazio, il governatore delle Puglie taglia
corto: “E’ incredibile quello che scrivono i soloni?i Galli della
Loggia, i Panebianco?”.
“E il berlusconismo che cos’e’? La favola bella che cuce
l’Italia delle mille corporazioni non e’ una straordinaria operazione
ideologica? Berlusconi a quest’Italia cosi’ spaventata, regredita,
ferita offre sogni e paure. I sogni dell’Isola dei Famosi e le paure
dell’immigrato. Un mix straordinario” afferma, riconoscendo che la
sinistra ha offerto in contrapposizione “Un discorso debole,
ridondante, incapace di capovolgere l’ideologia berlusconiana”.
Contrapporre a Berlusconi un Veltroni leader nei prosimi anni
della sinistra solleva scetticismo in Vendola: “Veltroni ha scelto un
cammino che lo allontana dalla sinistra. Espellere la centralita’
della questione del lavoro dalla propria cultura politica significa
recidere le radici sociali dell’essere di sinistra”. Per Vendola il
progetto Veltroni “e’ stato scardinato completamente. L’unico elemento
di vittoria e’ la scomparsa della sinistra. Il vento di destra lo ha
travolto”, ma riguardo la leadership del leader del Pd e’ convinto che
non ci sia alcun rispetto all’esito elettorale. “Siamo all’inizio di
un percorso dagli esiti insondabili” dice. (segue)
(Adnkronos)- “La bussola di Veltroni -dice Vendola- e’ un mix di
radicalismo etico e moderatismo politico. C’e’ l’Africa ma non c’e’ la
precarizzazione del mercato del lavoro. C’e’ la sete del mondo ma non
c’e’ la privatizzazione dell’acqua in Italia”. E la presunta stagione
di Cofferati leader della sinistra, per il governatore “Si tratto’ di
una abbaglio e di un’illusione ottica. Ho letto i discorsi di
Cofferati e ne ho tratto un’impressione di superficialita’ e
schematismo. Sotto il vestito niente”. “Cofferati -sottolinea- e’
quello dei lavavetri. Ha anticipato, per molti versi, la conversione
neomoderata del Pd e la sussunzione di pezzi interi della cultura
tipica della destra”.
Per Vendola, essere comunisti oggi “Vuol dire porsi molte
domande, sapere che la qualita’ della vita e’ sempre legata alla
condizione del lavoro, allo sfruttamento. Evitare qualunque feticcio
politico. Una visione feticistica della politica e’ quanto di meno
comunista ci possa essere. Mummie, naftalina, asfissia, gulag”.
“Esistono -aggiunge- molti piu’ proletari che nel passato, in forme
nuove”. E chiamato al gioco della torre, butti giu’ Rizzo o Diliberto,
non ha dubbi: “Non c’e’ bisogno che dica io delle cose orrende di
Rizzo, basta lui. Parla da solo. E’ impresentabile”. Mentre “Bondi e’
simpaticissimo” e “fa tenerezza. Cicchitto e’ fastidioso” e la Binetti
” e’ sempre meno un corpo estraneo all’interno del Pd”.
Quindi ricorda la sua rubrica ‘Il dito nell’occhio’ su
‘Liberazione, dicendo: “La leggevano tutti… Ho meritato alcuni
attacchi di Giampaolo Pansa. Fu abbastanza sgradevole. Ma non voglio
entrare in polemica di nuovo con Pansa. Perche’ e’ livoroso, e’
cattivo. Ha perso la trebisonda. Insulta. Dopo essere stato piu’ o
meno interno al Pci, e’ diventato anticomunista. Ma ha trattenuto una
specie di virus stalinista, uno stalinismo della semplificazione,
della politica spettacolo”. “Vengo da una cultura politica che ha
molto odiato. E non voglio piu’ odiare” aggiunge. (segue)
Vendola, infine, parla di se stesso, del suo essere
cattolico e gay. “Mio padre ci rimboccava le coperte fino a 18 anni
chiedendoci ‘Avete fatto le preghiere?'” ricorda e, parlando di Papa
Benedetto XVI afferma: “Non posso dire di essere incoraggiato da
questo inizio di pontificato. Quello che mi delude soprattutto e’
l’eccesso di dimestichezza della Chiesa con i poteri temporali. E il
suo bisogno di avere successo. Di misurare i rapporti di forza nelle
piazze. Io amo molto un’idea catacombale della Chiesa”.
Il suo coming out, ricorda ancora avvenne “nel sessantotto, a
vent’anni. A Terlizzi che non era Roma. Fu un massacro sociale,
politico, familiare” ma niente di diverso a quanto ha riferito lo
stesso Grillini nella sua Romagna. Anzi, Vendola sottolinea che “il
Sud da questo punto di vista e’ sempre stato piu’ avanzato” Mentre per
metteere in equilibrio la formula gay e cattolico, dice che “basta
bonificare la propria spiritualita’ dai sensi di colpa”.
Sulle posizioni rispetto all’omosessualita’ assunte da
Buttiglione e da Tremaglia, Vendola ritiene che sianno “due sfumature
della stessa paura. L’omofobia puo’ essere esercitata con la grevita’
del linguaggio da caserma di Tremaglia o con le sepolcrali ipocrisie
di Buttiglione”. Infine sui magistrati Forleo e De Magistris taglia
corto ancora: “Non mi piacciono i magistrati da talk show, e’
giustizia di piazza”.
>Sulla riforma del contratto
>
Due articoli per capire un po’ di più.
Lavorare di più, contrattare in azienda
di Sara Farolfi
su Il Manifesto del 01/05/2008
È pronto il testo sulla riforma del modello contrattuale. Segreterie unitarie di Cgil, Cisl e Uil la prossima settimana. Il contratto nazionale viene ridotto al «minimo», e gli aumenti salariali saranno da contrattare in azienda. Mentre Berlusconi prepara la detassazione secca degli straordinari
I sindacati accelerano sulla riforma del modello contrattuale. I tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil hanno definito e completato il testo comune che sarà alla base della discussione con Confindustria, oggi dovrebbero annunciarlo e già per l’inizio della settimana prossima sono previste le segreterie unitarie delle tre confederazioni. Guglielmo Epifani, alle prese con il dissenso interno della categoria dei metalmeccanici e delle aree programmatiche Lavoro e società e Rete 28 Aprile, ha scelto la strada dell’accelerazione. Su una materia, la contrattazione, che costituisce l’essenza stessa del sindacato. Il cambiamento è poderoso e deciderà delle politiche salariali (e non solo) per almeno il prossimo decennio. Con gli accordi del luglio 1993, le politiche contrattuali furono informate al principio della stabilità monetaria e al contenimento dell’inflazione. Allora l’obiettivo era l’ingresso in Europa, il pegno da pagare (dai soliti noti, naturalmente) fu quella moderazione salariale che ha portato i salari italiani ai livelli più bassi di tutta Europa. Oggi l’obiettivo è, accanto al miglioramento delle condizioni di reddito, «la competitività e produttività del nostro sistema imprenditoriale». Al contratto nazionale resta la difesa del potere d’acquisto, gli aumenti salariali saranno da contrattare in azienda (legati ai parametri della produttività, qualità, redditività, efficienza e efficacia). Ma la contrattazione di secondo livello, come hanno mostrato diverse ricerche (ultima quella del Censis), interessa una fetta piccola del sistema imprenditoriale. Di contrattazione territoriale – a cui oggi si richiamano i sindacati con le parole, Rsu in tutti i posti di lavoro – si parlava già nel ’93 e, salvo pochi settori, del tutto inutilmente (del resto Emma Marcegaglia ha già parlato chiaro: per noi non esiste). Nella gran parte delle imprese italiane, che sono sotto i 10 dipendenti, non c’è neppure il sindacato. A questo si aggiunga l’offensiva berlusconiana che porterà sul tavolo del primo consiglio dei ministri la detassazione secca degli straordinari e di tutte le voci del salario variabile (premi e incentivi). Ossia l’allungamento di fatto dell’orario di lavoro ( per guadagnare di più bisogna lavorare di più ), che nelle intenzioni del nuovo governo non avrà alcun riferimento alla contrattazione aziendale. Puntando in questo modo al pieno dispiegarsi del rapporto individuale tra azienda e lavoratore. Il nuovo modello contrattuale I contratti (pubblici e privati), oggi divisi in un quadriennio normativo e due bienni economici, saranno triennalizzati. La difesa del potere d’acquisto viene ancorata al concetto di «inflazione realisticamente prevedibile». Nel ’93 si chiamava «inflazione programmata», e il risultato (complice anche il costante ritardo nei rinnovi dei contratti nazionali) è sotto gli occhi di tutti. Per misurare l’inflazione, i sindacati pensano all’indice europeo (a cui andrebbe aggiunta la spesa per i mutui), oppure al deflattore nazionale dei consumi interni: la cosa sarà comunque oggetto della trattativa con le imprese (che non sembrano per la verità molto disponibili). Viene corretto anche quel passaggio del testo – da molti letto come un’apertura alla possibilità di deroghe – in cui si dice che «i contratti nazionali dovranno prevedere, in termini di alterità, la sede aziendale o territoriale». Gli aumenti salariali saranno relegati alla contrattazione di secondo livello – aziendale e territoriale (regionale, di filiera, comparto, distretto e sito). Per tutti i lavoratori scoperti, verrà definita a livello nazionale una sorta di «indennità di perequazione», come nell’ultimo contratto dei metalmeccanici. Decisive, vengono considerate in casa Cgil, le linee guida su democrazia e rappresentanza. I sindacati puntano sulla certificazione, e dunque sulla certezza, della rappresentanza. Il luogo deputato sarà il Cnel e la certificazione delle iscrizioni sarà fatta mediante l’Inps. Il modello somiglia a quello del pubblico impiego, anche se l’accordo sarà per via pattizia (tra le parti) e non per via legislativa. Per misurare la rappresentatività (quali organizzazioni sindacali siano ammesse alla contrattazione collettiva) sarà utilizzato un indice, che terrà conto del numero di iscritti, dei voti presi nelle elezioni delle Rsu e di quelli nei comitati di sorveglianza degli enti previdenziali. Nel testo siglato tra Epifani, Bonanni e Angeletti la soglia (che nel pubblico impiego è fissata al 5%) dovrebbe essere lasciata alla decisione delle singole categorie. Anche per l’approvazione degli accordi, sarà preservata l’autonomia delle categorie. Per gli accordi interconfederali il procedimento sarà invece quello seguito con il protocollo sul welfare: le segreterie unitarie sottoporranno l’ipotesi di accordo al voto dei direttivi unitari, i contenuti dell’accordo verranno illustrati ai lavoratori, e nella fase finale sottoposti a «consultazione certificata». Sembra invece finita in nulla la richiesta della Uil di una forma di validazione specifica anche per la proclamazione di scioperi. L’era berlusconiana Cgil, Cisl e Uil puntano ad arrivare al primo incontro con il governo con il testo condiviso. La contrattazione di secondo livello, chiedono, dovrebbe essere incentivata anche mediante sgravi contributivi (a cui si è dato corso con il protocollo sul pensioni e welfare). Berlusconi punta tutto per ora sulla detassazione degli straordinari e delle una tantum. Punta cioè, e non ne fa mistero, al rapporto individuale tra lavoratrice o lavoratore e datore di lavoro. La Cgil si è detta contraria a tali misure, ma il combinato disposto tra la riforma del modello contrattuale e le politiche berlusconiane lasceranno il segno. Sarà così possibile per i padroni aumentari i salari dei dipendenti, senza dovere ricorrere al contratto integrativo (imprenditori alla Della Valle o alla Riello ne saranno felici). E sarà persino possibile (lo ha notato anche Ichino) una nuova forma di evasione fiscale: per sottrarre ogni aumento retributivo all’aliquota Irpef, sarebbe sufficiente farlo passare come straordinario.
“Senza contratto nazionale torniamo alla fine dell’800”
di Fabio Sebastiani
su Liberazione del 04/05/2008
«Altro che moderne relazioni sindacali. Se cade il contratto nazionale di lavoro si torna alla fine dell’800». Osvaldo Squassina, ex segretario bresciano della Fiom, esperto di salari e buste paga, scuote la testa. Questa storia del rinnovo dei modelli contrattuali attraverso un forte riequilibrio a favore dei contratti aziendali non lo convince proprio. E come lui molti sindacalisti che anche da posizioni “di destra” hanno sempre guardato al vincolo di solidarietà tra lavoratori come allo strumento fondamentale per la garanzia dei diritti elementari, primo fra tutti quello a non trovarsi costantemente sotto il ricatto individuale. «Innanzitutto, chi oggi parla di spostare l’accento nei rapporti aziendali – aggiunge Squassina – non si rende conto che il primo e il secondo livello di contrattazione sono due facce di una stessa medaglia. Dal punto di vista del lavoratore, se si depotenzia la prima anche la seconda sarà più debole». Difficile dargli torto, soprattutto se si pensa al fatto, storico, che il contratto nazionale nel “biennio rosso” nasce esattamente come tentativo di fare massa critica, di non farsi più “circondare” dai padroni fabbrica per fabbrica.
Un altro elemento da notare, secondo alcuni esperti di diritto del lavoro, è che la fine del contratto nazionale potrebbe avere tra le sue conseguenze anche effetti anticostituzionali, laddove si parla di parità di salario a parità di lavoro. Se, a partire dal maggior peso del contratto aziendale, infatti, si dovesse arrivare alle “gabbie salariali”, il rischio di una corsa al ribasso del costo del lavoro potrebbe portare a fortissime differenze nella busta paga per aree e quindi anche nelle stesse categorie.
Un pericolo ben presente agli stessi imprenditori. E’ lo stesso Carlo Dell’Arringa sul “Sole 24 ore” di ieri a vedere nella «rete protettiva dei salari minimi, sotto la quale non è socialmente opportuno scendere» una possibile soluzione a questo problema. A dire la verità i commi costituzionali dell’articolo 36 a rischio sarebbero due, compreso quello della retribuzione sufficiente «ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa a tutti i lavoratori e alle loro famiglie».
«La determinazione del salario minimo – sottolinea ancora Squassina – è una cosa difficilissima che di fatto è in vigore proprio nei paesi dove non c’è un contratto nazionale. Sarebbe una gestione tutta politica della lotta sindacale e della rivendicazione dei lavoratori».
Anche Nicola Nicolosi, leader di Lavoro Società, sottolinea l’estrema difficoltà a dipanare un nodo di questa portata. «A quel punto vuol dire che passeremmo da un modello rivendicativo a uno redistributivo». «Voglio sottolineare però – aggiunge – che nei paesi dove è in vigore il modello redistributivo attribuisce al salario una fetta di ricchezza nazionale di almeno dieci punti maggiore rispetto a quella italiana attualmente ferma al 40%». «La funzione del contratto nazionale – conclude Nicolosi – gioca un ruolo fondamentale nell’assetto democratico del paese e a guardar bene la storia è stato, insieme alla scuola e alla televisione, l’unica esperienza non retorica e celebrativa dell’unità del paese».
Per Danilo Barbi, segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna, il nodo del confronto con gli imprenditori non si può far risalire unicamente all’equilibrio tra primo e secondo livello del contratto. «Il panorama è piuttosto frastagliato – dice – perché ci sono anche quelli che non vogliono il contratto aziendale, come nel commercio, o addirittura, come nell’artigianato, che spingono per quello regionale». «E’ indubbio – continua Barbi – che l’equilibrio tra contratto aziendale e contratto nazionale è in discussione, ma la battaglia è per la contrattazione tout court». Per Barbi, comunque, il contratto nazionale è quello che ha «promosso le condizioni di miglioramento sociale e collettivo dei lavoratori». E non solo da un punto di vista economico.
Contro la revisione dei modelli contrattuali, infine, anche il mondo del sindacalismo di base è in movimento. Il 17 a Milano è prevista una grande assemblea di delegati e delegate. Cinque i punti all’ordine del giorno: salari, sicurezza, precarietà, rappresentanza e concertazione. «Il problema del contratto nazionale – sottolinea Paolo Leonardi – è il suo rafforzamento perché così come è non fa altro che dare un po’ di salario in cambio della cessione di diritti».